Così in Bolivia Morales fa campagna elettorale sul corpo di Che Guevara
Fallito il referendum per permettergli di ricandidarsi per un quarto mandato, il presidente boliviano sta cercando di convincere l'opinione pubblica di essere l'erede legittimo del "Che"
A cinquant'anni dalla morte, il cadavere del Che è diventato strumento di campagna elettotrale. “Il Che cercava di ottenere con le pallottole quello che io ho ottenuto attraverso il voto democratico”, ha detto il presidente boliviano Evo Morales a margine della grande kermesse – per mettere il cappello sull'eredità del “martire rivoluzionario” – da lui organizzata a La Higuera, la località dove venne ucciso Ernesto Guevara. Il tutto si inserisce nella campagna che sta facendo da mesi per aggirare il risultato del referendum con cui il 21 febbraio del 2016 il 51,3 per cento dei votanti disse no alla proposta di riforma costituzionale di quell'articolo 168 che impedisce più di due ricandidature consecutive per presidente o vicepresidente.
In realtà Morales sta già facendo il suo terzo mandato: ma il primo ha fatto dichiarare che non contava, perché era stato eletto in base a una Costituzione precedente. Per potersi candidare una quarta volta nel 2019, il 21 settembre ha fatto presentare dal suo partito al Tribunale di Giustizia la richiesta di dichiarare la Costituzione “incostituzionale”, in quanto si oppone, all'articolo 23, alla Convenzione Americana dei Diritti Umani secondo cui a nessuno dovrebbe essere negato il diritto di essere eletto. “Perché Angela Merkel può fare un quarto mandato e io no?”, ha pure scritto nel Tweet con cui si è congratulato con la cancelliera per il risultato elettorale. E così, constatato il fallimento del referendum e la stranezza della richiesta di incostituzionalità della costituzione non resta che accreditarsi come l'erede legittimo del "Che". Che magari non avrà valore giuridico, ma serve comunque per dare alla mossa un ulteriore alone di legittimazione ideologica. Per lo meno agli occhi dei molti per i quali il guerrigliero argentino è ancora un mito.
Non tutti, in realtà. A Rosario, città natale del Che, una petizione ha chiesto di rimuovere la sua statua, poiché “l'eredità assassina del comunismo non merita omaggi”. In Bolivia hanno organizzato mostre di dipinti dedicati al Che, esposizioni fotografiche, dibattiti, presentazioni di libri, perfino un congresso dedicato al suo impegno come “medico sociale”. Ma c'è stata anche una protesta di reduci, infuriati per gesto con cui il presidente ha offerto fiori alla memoria di “uno straniero che era venuto a ammazzare soldati boliviani”. Alla loro testa si è messo il generale a riposo Gary Prado Salmón: cinquant'anni fa capitano e comandante dei Rangers che catturarono il Che. Prado nell'occasione ha ripubblicato un suo libro uscito trent'anni fa nel quale spiegava che fu Fidel Castrlo a mandare al macello il Che in Bolivia: voleva levarsi di torno un esagitato che creava problemi, sopratutto nelle relazioni con l'Urss. Astiose calunnie? Questa è la stessa tesi la sosteneva Dariel Alarcón Ramírez, “Benigno”, il braccio destro del Che che dopo la sua morte prese il comando dei guerriglieri superstiti, portandoli in salvo in Cile. Dopo aver rotto con il regime andò in esilio nel 1994 a Parigi, dove morì nel 2016. Lo scorso luglio una cosa del genere l'ha detta perfino Juan Martín Guevara, fratello minore del Che. Solo che lui discolpa Fidel e dà la colpa invece a un complotto del Kgb.