British dream, esisti davvero?
Due chiacchiere con Ben Judah sul “sottomondo” di Londra, a caccia di un’identità inglese che cerca di non perdersi e anzi di rinnovarsi. E no, di favolette non ce ne sono
Londra. Non è un bel sogno, la Londra di Ben Judah. Non perché sul sottomondo di povertà, disperazione e disincanto che il giornalista racconta nel suo libro ‘This is London’, Questa è Londra, del 2016, ci sia mai un giudizio, anzi, ma perché le storie raccolte con l’ardore giovanile del raffinato poliglotta figlio di intellettuali che si traveste da muratore russo o va a dormire nei sottopassaggi di Hyde Park con i mendicanti rumeni hanno il sapore amaro della polvere mangiata quando si cade per terra. “Non è una città di schiavi, non solo, ma è una città di delusioni”, spiega Judah al telefono con il Foglio mentre dà indicazioni al tassista che lo accompagna in giro per Los Angeles. E se la Brexit aumenterà queste delusioni è tutto da vedere, perché da una parte ci vuole ben altro per interrompere la vocazione di Londra ad aggregare storie e vite, un po’ perché magari i conservatori eviteranno il suicidio economico e tutto tornerà come prima, osserva Judah impassibile, né ottimista né pessimista, più scrittore che oratore, razionale nelle osservazioni, quasi mistico nella visione e nello stile.
Con il suo libro di reportage sugli angoli dimenticati della megalopoli britannica il ventinovenne franco-inglese si è guadagnato una pioggia di elogi che ha aggiunto nuovo lustro a una carriera già abbastanza mirabolante: corrispondente dal fronte georgiano nel 2008, collaboratore del New Yorker, di Politico, del Financial Times, del Times e chi più ne ha più ne metta, autore dell’antiputiniano “Fragile Empire” sulla Russia, pubblicato dalla Yale University Press nel 2013, già intervistatore di Emmanuel Macron, su cui sta preparando un libro “per far luce sulla nuova Francia al di là degli sterotipi”. La sinistra lo ama per aver saputo raccontare l’irraccontabile e aver messo da parte ogni ideologia per lasciare che fossero le persone stesse a parlare, intervistando chi non ha una voce e sfugge a qualunque radar, e da destra è stato celebrato per la maniera in cui ha illustrato il vizio di fondo dell’integrazione, mettendo in evidenza gli stravolgimenti che ha apportato alla città e il principale limite interno: chi viene a Londra spesso lo fa per fare soldi “nelle strade più ricche del mondo” con qualunque mezzo a disposizione, non per scambiare la propria cultura d’origine con quella locale. Una diffidenza che i britannici ripagano con la stessa moneta, secondo un polacco con cui Judah chiacchiera in fila per un lavoro da bracciante edile: “Loro tollerano solo quelli delle ex colonie” e odiano gli europei dell’est.
C’è una sola frase in tutto il libro ad avere il sapore di un giudizio, e infatti i commentatori ci si sono tutti aggrappati. “Perché mi fido solo di quello che vedo”, scrive Judah all’inizio del libro: “Sono nato a Londra ma non riconosco più la città. Non so se amo la nuova Londra o se mi terrorizza: una città dove almeno il 55 per cento delle persone non è etnicamente bianca, dove circa il 40 per cento è nata altrove e dove il 5 per cento vive illegalmente nell’ombra. Non ho idea di chi siano questi nuovi londinesi. O cosa sia davvero la loro Londra”. Qualche critico ha fatto notare che uno nato nel 1988 forse non si ricorda che la città è sempre stata irriconoscibile rispetto al decennio precedente. Londra “storicamente ha un ruolo di accoglienza” e accende i sogni del mondo intero perché “si vede in tutti i film, si vede in televisione” e perché, a differenza di altri posti come per esempio Parigi, “ha un mercato del lavoro molto meno regolato, molto più flessibile”, ammette Judah. “Vengo da una famiglia della comunità ebrea sefardita, le pare che possa rimpiangere l’arrivo di nuove culture?”, prosegue. “Londra è stata teatro di un’immigrazione di massa e a me interessa guardarci dentro, ma non ho un’agenda politica. Ci sono troppi attivisti tra i giornalisti e ho scritto tanto contro il loro tipo di approccio”, aggiunge, dall’alto di un libro che cita più di trecento articoli moraleggianti del Guardian ma anche, volendo, più di cento discorsi alla Nigel Farage sul fatto che Londra non è più una città inglese.
Judah comincia dalla nascita di un migrante, ossia dall’arrivo: la stazione dei pullman di Victoria, “la nostra triste Ellis Island”, dove sbarcano duemila persone a settimana, il “punto da cui la nostra società sta cambiando”. E attraverso venticinque storie minime e enormi – un ragazzo venuto dal Ghana pensando di poter diventare un uomo d’affari e finito a raccogliere i poveri resti di chi si butta sotto il metrò per ripagare i debiti e poter tornare a casa, prostitute impazzite dopo l’uccisione di una collega, ragazze musulmane che arrivano a scuola con il velo e vanno in bagno a mettersi la minigonna, principesse arabe stordite dalle droghe, filippine onniscienti che corrono come saette attraverso i labirinti fioriti di Hyde Park per sfuggire alle famiglie che le schiavizzano – Ben Judah squarcia il velo su una Londra incomprensibile anche ai suoi occhi. “Volevo trovare gente a stadi diversi della vita, gente di gruppi diversi, per fare un ritratto diverso della città”, prosegue al telefono, spiegando di non essersi occupato degli immigrati dell’Europa del sud perché “non volevo che il mio libro diventasse troppo lungo”. Aggiungendo, con vezzo giovanile: “Non volevo che fosse più lungo di Lolita, 140 mila parole”.
Da bravo giornalista britannico, in un’ora di conversazione non ti fa capire per chi vota. “Il sociale è al centro di un movimento da parte laburista, ma poi tradizionalmente le case popolari le costruiscono i Tory”, osserva. I suoi personaggi non esistono per il mondo, guadagnano meno del minimo, spesso non sanno neppure di aver bisogno di documenti. “Ma sono tutti della prima generazione”, spiega, con un po’ di ottimismo: “Per i loro figli sarà tutto diverso”. Nelle sue peregrinazioni nel sottomondo, qualcuno lo fraintende e gli chiede: “Lo so cosa cerchi, cerchi una storia meravigliosa come quella di Mo Farah”. No, proprio il contrario. Meglio, perché “qui di favolette da British dream non ce ne sono”.