La neutralità di Trump
In Iraq e in Siria, il post Stato islamico senza un piano è pericoloso
Milano. Raqqa è stata liberata dallo Stato islamico, le Syrian democratic forces (Sdf) curdo-arabe hanno detto che “la situazione è sotto controllo”, continuano le “operazioni per distruggere cellule dormienti, se ce ne sono”, ma non sventola più la bandiera nera che rievocava le tante esecuzioni che hanno avuto come teatro questa Raqqa devastata. Lo Stato islamico perde la sua roccaforte siriana, già era in fuga e a caccia di nuove aree ma i simboli sono importanti, e la caduta di Raqqa è un segnale potente di come la coalizione a guida americana stia vincendo la guerra contro il gruppo di al Baghdadi. Ora si apre una fase cruciale – non ora in realtà, è da tempo che si dice: pensiamo a come vogliamo organizzare le aree liberate dallo Stato islamico, i nostri “boots on the ground” avranno le loro pretese e i loro interessi da difendere, è necessario e urgente l’esercizio di una leadership che faccia da mediazione e da sintesi in una terra tormentata da secoli di conflitti. Tocca a noi, insomma, a noi occidentali, agli americani soprattutto senza i quali nessuna operazione militare può avere successo.
Il problema è proprio qui: non c’è esercizio di leadership negli Stati Uniti di Donald Trump. C’è confusione, c’è improvvisazione, si procede per istinto o per ripicca, a seconda del nemico interno del momento. Quest’assenza costellata di invadenze casuali diventa pericolosa e frustrante in medio oriente. Basta vedere cosa è accaduto a Kirkuk e quel che sta accadendo in queste ore alla diga di Mosul che gli iracheni stanno riprendendo ai peshmerga per capire che la confusione, il “non stare con nessuno”, come ha detto il presidente Trump, genera una situazione di caos di cui possono e sanno approfittarsene soltanto i più fanatici, quelli che sul non-controllo degli altri giocano la partita della propria influenza.
Fino a qualche anno fa, Trump non sapeva quasi chi fossero i curdi – li confuse, durante un’intervista, con le forze al Quds, che suonano in inglese quasi uguali ai “kurds”, ma sono alle dipendenze di Teheran –, oggi dice che, come si sa, i curdi sono alleati da sempre degli Stati Uniti, ma siccome noi, cioè gli americani, “non avremmo dovuto nemmeno esserci in Iraq”, la Casa Bianca si dichiara neutrale.
La Casa Bianca sostiene sia l’esercito iracheno sia le forze curde: se queste si scontrano tra di loro, Trump dice che “non si schiera da nessuna parte” e il dipartimento di stato parla di “incomprensioni” e chiede che torni la calma. Ma il problema è a monte: una volta che lo Stato islamico viene cacciato dai terreni che ha occupato dal 2014, è necessario avere una visione, un piano, per la redistribuzione di queste terre, altrimenti gli interessi di ogni gruppo che ha combattuto lo Stato islamico diventano padroni, e si sa che questi interessi non sono convergenti, e che la divergenza si misura in conflitti e in numero di morti. Questo vale in Iraq come in Siria, e vale per i curdi, per le brigate sciite, per l’esercito iracheno, per quello siriano, e per i russi.
Quel che è accaduto negli ultimi giorni a Kirkuk è esemplificativo. Saddam Hussein cacciò i curdi da Kirkuk, nel 2003 i curdi ripresero il controllo della città, causando una crisi con la popolazione araba che nel frattempo ci era andata ad abitare. Per un decennio si è discusso dello status di Kirkuk, ma nel 2014 è arrivato l’Isis, che ha preso Mosul e quasi anche Kirkuk, difesa dai peshmerga che da allora hanno tenuto il controllo della città. Il referendum sull’indipendenza curda – che non è una dichiarazione unilaterale della costituzione di uno stato curdo – ha rianimato la lotta per Kirkuk, e così le forze irachene sono rientrate nella città. Aiutate – anzi, guidate – da quelle brigate sciite cui già l’Amministrazione Obama aveva dato mandato informale di “boots on the ground” contro l’Isis, e che oggi vogliono esercitare la loro influenza (non è un caso che le operazioni a Kirkuk siano state organizzate dalla mente degli iraniani all’estero, Qassem Suleimani). Senza un piano, senza una leadership, quel che è accaduto a Kirkuk riaccadrà altrove, mentre l’assenza americana sarà scandita dai commenti infantili (e sciagurati) di Trump, che dice che quel che sta succedendo è molto brutto. E i curdi, alleati storici dell’America, convinti difensori dell’America, si ritrovano con la loro terra dimezzata, in ginocchio davanti agli iraniani, un’umiliazione indimenticabile.