Trump minaccia la fine del Nafta per tenere fede alla dottrina dell'abbandono
Uscire dai consessi, dai trattati, dalle reti, dalle alleanze, dalle coabitazioni, dai negoziati multilaterali e dagli ordini mondiali sembra l’unico filo rosso che tiene insieme i movimenti scomposti del presidente
New York. John Melle, il capo della delegazione americana che negozia sul Nafta, ha risposto soltanto “fabolous” ai cronisti che gli domandavano come stanno andando le trattative, prima di scomparire nella sala conferenze di Washington dove si tiene il quarto round negoziale sul trattato di libero scambio con il Messico e il Canada. “Favoloso” significa che l’Amministrazione che ha promesso fughe protezioniste dai trattati che puntellano l’odiata ideologia globalista ha messo sul tavolo le proposte più audaci. Secondo quanto trapela da Washington, la Casa Bianca chiede l’introduzione di una serie di dazi fra i quali uno per proteggere i componenti delle automobili prodotti in America, con una barriera del 50 per cento del valore. Inoltre, gli uomini di Trump vorrebbero introdurre nel trattato una cosiddetta “sunset clause”, una clausola che fa decadere automaticamente l’accordo dopo cinque anni se le nazioni coinvolte non decideranno attivamente di rinnovarlo. Si tratta di un modo per attutire l’impatto politico e distribuire le responsabilità di una eventuale rottura. A dicembre ci sarà una nuova sessione di negoziati in Messico e gli Stati Uniti possono tecnicamente rimandare anche al prossimo anno la decisione sull’abbandono del “peggior trattato commerciale nella storia del mondo” che il presidente ha promesso al suo elettorato, ma nelle ultime settimane c’è stata un’accelerazione nelle operazioni guidate da Robert Lighthizer, il rappresentante del commercio. La strategia adottata è la sintesi del manuale del negoziato trumpiano, che prevede di alternare le minacce di lasciare il tavolo all’offerta di condizioni impossibili da accettare per i partner, come ad esempio la riforma degli arbitrati sulle dispute commerciali, che rimette nell’orbita dei singoli stati competenze che navigavano in acque legali sopranazionali.
In particolare, i negoziatori americani sembra stiano facendo leva su una ipotetica dichiarazione di uscita unilaterale dal Nafta con un preavviso di soli sei mesi tentare di ottenere il massimo da questi complicati dialoghi, ma tutto è subordinato al “fattore Trump”, la variabile impazzita che resiste a qualunque schema interpretativo. Anche gli economisti e gli esperti del commercio internazionale che lo conoscono meglio non sanno dire dove finiscono le intenzioni e inizia il bluff: “E’ imprevedibile, quindi non so come andrà a finire. Per ora sul commercio ha abbaiato più di quanto abbia morso, ma penso che alla fine vedremo un Nafta 2.0 che darà maggiori benefici e più protezione ai lavoratori americani”, ha detto Stephen Moore, economista della Heritage Foundation che è stato consigliere di Trump durante la campagna. A bilanciare gli istinti protezionisti c’è il solito Gary Cohn, il capo dei consiglieri economici che finora ha vinto quasi tutte le battaglie interne. L’ex presidente di Goldman Sachs sta cercando di convincere il presidente a non toccare il trattato da cui dipende un giro d’affari da mille miliardi di dollari l’anno mentre cerca di fare l’agognata riforma fiscale, ché i dissensi protezionisti rischiano di far naufragare anche il taglio delle tasse, sul quale è invece possibile costruire un fronte di consenso. Il Nafta, tuttavia, è la balena bianca del nazionalismo populista, il simbolo dell’internazionalismo clintoniano e di tutte le forze che minacciano la riverita sovranità. Per Trump smantellare il Nafta è una questione esistenziale, e per questo nell’inner circle si discute ormai solo della tempistica dell’operazione, non della sua eventualità. Accanto al Nafta c’è anche il Korus, sigla meno carica di significati politici ma ugualmente invisa a un presidente che ha disperatamente bisogno di vittorie da dare in pasto agli ultrà. Il trattato con la Corea del sud è un elemento di consolidamento importante di un’alleanza che in questo momento è cruciale per l’Amministrazione Trump. Indebolire il legame con Seul mentre la guerra di test, esercitazioni e retorica con Kim Jong-Un è oltre i livelli di guardia a molti non pare un’idea brillante, ma questa amministrazione imprevedibile senza dottrina né linee strategiche ormai ha come stella polare quella dell’abbandono. Uscire dai consessi, dai trattati, dalle reti, dalle alleanze, dalle coabitazioni, dai negoziati multilaterali e dagli ordini mondiali sembra l’unico filo rosso che tiene insieme i movimenti scomposti di Trump. Dal T-tip all’accordo di Parigi, dall’Unesco al patto con l’Iran, il presidente trova la realizzazione della sua missione politica nell’abbandonare la sala.
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