Non è più un'utopia pensare all'intesa con il Papa. I termini del negoziato
Politica, economia, sicurezza e alleanze. Si apre oggi il diciannovesimo conclave del Partito comunista. No, non è uguale a tutti gli altri, anche perché il mondo intanto si è un po’ capovolto
Roma. Nel suo primo mandato, Xi Jinping qualche segnale a Roma l’ha mandato, dallo scambio di telegrammi con Francesco al permesso concesso all’aereo papale diretto in Corea del sud di sorvolare il territorio cinese. Il Pontefice ha ricambiato con commenti positivi riguardo Pechino, tralasciando i temi più controversi e mettendo in luce il ruolo positivo della Cina per l’umanità. E’ la politica dei piccoli passi, portata avanti dalla diplomazia vaticana guidata da Pietro Parolin, che di questioni cinesi s’intende come nessun altro nei pressi di San Pietro. Il Papa, da par suo, più volte ha mostrato interesse di ristabilire un rapporto con il paese asiatico, interrotto da più di mezzo secolo. Il negoziato, che va avanti da anni, è complesso. Il problema principale è rappresentato dalla nomina dei vescovi: Pechino vuole avere l’ultima parola, il che è inaccettabile per Roma, che ricorda sempre come solo il Papa possa scegliere i pastori cui affidare le diocesi. Parolin procede a fari spenti, nel silenzio. Meno si parla e meglio è, dicono in Vaticano. E’ fondamentale, infatti, sia non urtare la suscettibilità della controparte sia calarsi nel peculiare sistema culturale cinese.
Il modello vincente è quello di Matteo Ricci, il gesuita che tra il Cinquecento e il Seicento tentò di portare alla chiesa del Papa il popolo cinese, adattando gli ieratici riti romani alle usanze locali così estranee all’occidente. Oggi, cinque secoli dopo, definiremmo l’approccio realista: non guardare al passato, non riaprire ferite dolorose né irrigidirsi su questioni di principio. La realtà episcopale cinese è divisa: da una parte il combattivo cardinale Joseph Zen, da sempre fiero avversario di ogni intesa con Pechino, dall’altra i suoi successori sulla cattedra episcopale di Hong Kong, assai più permissivi e sostenitori della linea “meglio un brutto accordo che nessun accordo”. In realtà, il problema dei cristiani in Cina andrebbe inquadrato nel rapporto più ampio tra Pechino e le religioni. Non appare infatti troppo diverso il trattamento che il Partito riserva alle minoranze a occidente, dai buddhisti in Tibet agli uiguri musulmani. In quest’ultimo caso, gli scontri non sono solo simbolici, legati a una testimonianza di fede, bensì anche armati. E’ l’evoluzione del “sospetto” proprio dei regimi atei verso le religioni, già visto decenni fa in Unione sovietica e, più recentemente, nella Cuba castrista. E’ anche per questo che la Santa Sede è decisa nel seguire una prudente linea di silenzio. Si tratta, si negozia, si cerca di avvicinare le parti, magari già entro la fine del secondo mandato di Xi Jinping.