Sinofobia made in Usa
In America monta un sentimento anticinese. Bannon lo cavalca, ma non è confinato al trumpismo
Roma. Steve Bannon non è più il chief strategist della Casa Bianca, e dunque non è più il consigliere politico di Donald Trump, ma sostiene di continuare ad aiutare la causa trumpiana anche a distanza. E continua a dedicare gran parte del suo tempo a combattere ciò che ritiene una “guerra economica” contro la Cina, come ha spiegato all’American Prospect subito dopo aver lasciato il suo incarico a Washington. E’ per questo che, come riporta il Financial Times, la sua attività internazionale non è cessata. Secondo uno scoop del quotidiano londinese mai smentito ufficialmente, alla fine del mese scorso è andato in Cina e ha incontrato, in segreto e per oltre novanta minuti, Wang Qishan, responsabile della campagna anticorruzione del Partito comunista e considerato il secondo uomo più potente del regime dopo il presidente Xi Jinping. Secondo una fonte del Ft: “I cinesi hanno voluto vedere Bannon prima del suo discorso a Hong Kong perché volevano informazioni sul nazionalismo economico americano e sui movimenti populisti”. Il regime incontra Bannon, scrive il quotidiano finanziario, anche perché non ha, in questo momento, personalità rilevanti con cui parlare. Jared Kushner, prima individuato come possibile canale, negli ultimi mesi è apparso meno influente nelle decisioni di Trump; Rex Tillerson, il segretario di stato, è impegnato con il dossier nordcoreano e non ha un ottimo rapporto con il presidente.
Poche settimane dopo, Bannon ha incontrato il dissidente Guo Wengui, eccentrico miliardario cinese che ha chiesto asilo politico negli Stati Uniti ed è sotto accusa in Cina per corruzione, un dossier gestito proprio da Wang Qishan. Wengui sta denunciando da mesi le alte cariche del partito di essere a loro volta corrotte e ha promesso di rivelare informazioni compromettenti durante il congresso dei prossimi giorni. Bannon è convinto che l’America si trovi in una situazione simile alla guerra fredda, e che stia perdendo: “Se non risolviamo i nostri problemi con la Cina ne usciremo distrutti economicamente”, ha spiegato a Bloomberg. Per questo ha deciso di ritagliarsi un ruolo di secondo piano che gli consenta di incontrare sia Wang Qishan sia il dissidente Guo Wengui, e per questo vede personaggi non necessariamente ostili al rivale asiatico, come Henry Kissinger, ma decisivi nella battaglia contro il nemico sovietico. Insomma, l’abbandono della Casa Bianca non implica un depotenziamento del suo impegno, ma prende a modello il Committee on the Present Danger, think tank molto attivo negli anni Settanta, che influenzò Washington verso politiche più dure nei confronti dei sovietici: “Compresero di non poter vincere la guerra dall’interno”, ha spiegato Bannon al settimanale economico, “per vincere devi andare all’esterno e, come un allarme antincendio durante la notte, svegliare il popolo americano”.
L’azione dell’ex stratega di Trump non è isolata. Molte voci ufficiali, in particolare economisti, sono favorevoli a dure contromisure economiche nei confronti della Cina. Wilbur Ross, segretario al Commercio, ha più volte detto che chi non rispetta le regole del libero commercio andrebbe “penalizzato”, posizioni simili ha espresso Robert Lighthizer, rappresentante del Commercio dell’Amministrazione. Il presidente Trump, che a novembre visiterà la Cina, a settembre ha impedito l’acquisizione di una società americana da parte di un’azienda cinese a causa di “ragioni di sicurezza nazionale” per la prima volta da quando è stato eletto. Anche l’opinione pubblica mostra atteggiamenti di chiusura. Domenica scorsa il popolare show di Fox News, The next revolution, condotto da Steve Hilton, ex advisor di David Cameron, ha dedicato gran parte della puntata alla minaccia cinese. Mezz’ora di duri attacchi al “nostro nemico” da parte del conduttore e degli opinionisti in studio, ma anche da analisti come Scott Kennedy del Center for international and strategic studies, uno dei più importanti think tank americani. Un atteggiamento che sarebbe quindi sbagliato confinare al trumpismo: già a maggio 2015 il Diplomat notava preoccupato un montante sentimento anti cinese. Donald Trump non era ancora candidato alle primarie del Partito repubblicano.
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