Fame di notizie
Nel suo ultimo libro, Anne Applebaum racconta la carestia in Ucraina e come Stalin e i giornalisti occidentali la nascosero al mondo. Il modello oggi è aggiornato, ma è lo stesso
Il giornalista gallese Gareth Jones aveva ventisette anni quando arrivò in Ucraina nel 1933, e aveva già un passato: era stato collaboratore dell’allora premier inglese David Lloyd George, e proprio grazie a quell’impiego era riuscito a ottenere il visto per entrare nell’Unione sovietica. Le autorità sovietiche pensavano di poter utilizzare il viaggio di Jones per poi influenzare il suo ex datore di lavoro, ma il ragazzo in realtà era lì perché voleva raccontare il suo viaggio sui giornali inglesi o, ancora meglio, americani. Arrivò a Mosca, incontrò alcuni funzionari sovietici e alcuni giornalisti occidentali, poi ottenne il permesso di visitare un’azienda di trattori a Charkiv, che oggi è la seconda città più grande dell’Ucraina. Nel marzo del 1933, Jones salì sul treno ma scese prima della destinazione, e per tre giorni camminò lungo i binari, da solo, attraversando più di venti paesi e annotando pensieri e impressioni. Jones è morto giovane, tre anni più tardi, ucciso da banditi cinesi mentre attraversava la Mongolia, ma i suoi appunti sono sopravvissuti: li trovò suo nipote negli anni Ottanta, a casa della sorella in Galles, li trascrisse e li pubblicò. “Tell Them We Are Starving”, dite loro che stiamo morendo di fame, è un libro di racconti e testimonianze, persone per strada che raccontano sempre la stessa storia: non c’è pane, non c’è libertà, ci uccidono, qui tutto prima era del colore dell’oro, il colore del grano, davamo da mangiare al resto dell’Unione, e oggi invece stiamo morendo di fame.
Gareth Jones fu uno dei testimoni della grande carestia ucraina del 1932-33, l’Holodomor che è al centro dell’ultimo, bellissimo libro di Anne Applebaum, giornalista e saggista americana, “Red Famine. Stalin’s War on Ukraine” (Doubleday). La Applebaum racconta la storia di Jones, i suoi appunti strazianti, soprattutto come fu boicottato dagli altri giornalisti occidentali che non volevano che si parlasse della carestia ucraina – cinque milioni di morti in due anni – né certo che si dicesse che si trattava di un atto di aggressione da parte del governo centrale, cioè da parte di Stalin. Perché Jones non ha lasciato soltanto i suoi appunti, i racconti delle notti trascorse sul pavimento dei suoi ospiti terrorizzati: è riuscito anche a dirlo allora che era in corso una tragedia, ma lo ascoltarono in pochi. O meglio lo boicottò un reporter molto più potente, famoso e accreditato di lui.
Consultando archivi, testimonianze, musei, in Russia e in Ucraina (anche se molti archivi russi aperti dopo il 1990 sono ora stati di nuovo sigillati), la Applebaum ricorda che la crisi alimentare dell’inizio degli anni Trenta iniziò dal caos della collettivizzazione, quando milioni di contadini furono privati delle loro terre e forzati a lavorare in aziende agricole di stato. Nell’autunno del 1932, il Politburo sovietico prese una serie di decisioni ai danni specifici degli ucraini, che dopo la Rivoluzione d’ottobre si erano dichiarati indipendenti ed erano stati riportati alla casa madre con la forza, con lo smembramento territoriale, con il divieto di usare la lingua ucraina, con le purghe. Dopo la Rivoluzione, nel 1918, Stalin era stato nominato plenipotenziario per i negoziati con l’Ucraina: conosceva bene la forza del nazionalismo ucraino e in quegli anni nacque la sua ossessione nei confronti di questa terra tanto generosa e ricca: l’ossessione di perderla. Nonostante mancasse il cibo, Stalin iniziò a chiedere non soltanto che fosse consegnato il grano, ma ogni genere di bene alimentare. Ai contadini non rimaneva nulla da mangiare, ma nonostante le strade fossero piene di cadaveri e di lupi e di carcasse, l’ordine di ritirare ogni prodotto commestibile continuò. Chi si opponeva veniva ucciso. Chi lo faceva a Mosca, dentro al Partito, veniva cacciato, o imprigionato, o ucciso. Nel 1933 Stalin scrisse a un suo collaboratore che se la resistenza alla collettivizzazione non fosse stata repressa, “perderemo l’Ucraina”. Eccola, l’ossessione.
Molti ucraini guidati dalla fame e dalla paura si unirono ai gruppi di attivisti del Partito comunista per perlustrare casa per casa e sequestrare tutto, l’ultimo chicco di grano, l’ultimo fagiolo. Contemporaneamente fu creato un cordone attorno alle terre ucraine, così nessuno poteva scappare: fu “una catastrofe”, scrive la Applebaum, dei cinque e più milioni di morti, 3,9 milioni erano ucraini, “deliberatamente privati del cibo”, altri, gli intellettuali soprattutto, deliberatamente assassinati.
L’Unione Sovietica – racconta la Applebaum – non riconobbe ufficialmente la carestia, all’interno del paese non fu mai menzionata: il dissenso fu represso, le statistiche manipolate. Nessuno si sognava di fare cenno a quello che stava accadendo. C’erano a Mosca i corrispondenti dei giornali stranieri, i quali però non avevano vita facile. Per ottenere il permesso di lavorare e di stare lì, i giornalisti dovevano far controllare ogni dispaccio: senza il timbro ufficiale, gli articoli non potevano essere trasmessi all’estero. William Henry Chamberlin, che allora era il corrispondente a Mosca del Christian Science Monitor, scrisse che i cronisti stranieri “lavorano con una spada di Damocle sulla testa: la minaccia di espulsione, o il rifiuto di un permesso per rientrare, che è poi la stessa cosa”. Per non correre rischi, i giornalisti iniziarono a raccontare solo quel che permetteva loro di rimanere a Mosca.
Il 30 marzo del 1933, di ritorno dal suo viaggio a Charkiv, il giovane Gareth Jones sbucò a Berlino, dove organizzò una conferenza stampa con l’aiuto di un giornalista tedesco, Paul Scheffer, che era stato espulso dall’Unione Sovietica qualche anno prima. Jones disse che era in corso nell’Unione una carestia brutale: “Ovunque ho sentito lo stesso grido: ‘Non c’è pane, stiamo morendo’. Il grido arriva da ogni parte della Russia, dal Volga, dalla Siberia, dalla Russia bianca, dal Caucaso del nord, dall’Asia centrale. ‘Aspettiamo la morte’ è il messaggio di benvenuto che ho ricevuto: ‘Vedi, abbiamo ancora il mangime per gli animali, ma se vai più a sud, lì non c’è niente. Molte case sono vuote, sono tutti già morti’, mi hanno detto”. Due giornali americani che avevano un corrispondente a Berlino – il Chicago Daily News e il New York Evening Post – pubblicarono articoli in cui, citando Jones, raccontavano la carestia. Anche molti giornali inglesi ripresero la conferenza stampa, e Jones pubblicò i suoi resoconti sull’Evening Standard londinese, il Daily Express e il Mail di Cardiff.
Il regime sovietico non la prese bene, le misure restrittive nei confronti dei giornalisti stranieri divennero ancora più soffocanti, ma neppure i corrispondenti che a Mosca lavoravano da tempo, autocensurandosi, furono contenti. Sapevano della carestia, ovviamente – “ci sono eventi troppo grandi per essere messi in discussione”, avrebbe detto molti anni dopo uno di loro – e sapevano che quel che aveva raccontato Jones era vero, ma non volevano spezzare il patto con le autorità sovietiche.
La Applebaum racconta la storia del corrispondente a Mosca del New York Times, Walter Duranty, che aveva “interpretato così bene il proprio ruolo presso le autorità sovietiche” da avere un appartamento grande, un’automobile, un’amante, accesso quasi assoluto a ogni fonte – ottenne anche due interviste con Stalin. Anche negli Stati Uniti Duranty era famoso e autorevole, nel 1932 vinse il Pulitzer raccontando la collettivizzazione e i suoi “nobili principi”, fu invitato dall’allora governatore di New York, Franklin Delano Roosevelt, ad Albany – Roosevelt era tutto fiero: ho fatto io tutte le domande, questa volta, disse. Quando iniziò la carestia e il ministero degli Esteri chiese a ogni giornalista straniero di dare conto dettagliato dei viaggi nel territorio sovietico (nessuna richiesta di andare in Ucraina fu accettata), Duranty adeguò il linguaggio alle richieste: era permesso parlare di “mancanza di cibo” e di “malattie dovute alla malnutrizione”, ma non altro. Tutti sapevano, nessuno diceva.
All’indomani della conferenza stampa di Jones, mentre molti giornali riprendevano la notizia, Walter Duranty firmò un articolo dal titolo: “I russi hanno fame, ma non stanno morendo di fame”. Duranty affrontava direttamente Jones, “la fonte britannica di una grande e spaventosa storia apparsa sui giornali”: “Mr Jones è un uomo con una mente appassionata e attiva – scriveva Duranty – e si è preso la briga di studiare il russo, che parla con una certa competenza, ma chi scrive ha creduto che il giudizio di Mr Jones fosse in qualche modo frettoloso, e gli ha chiesto su quali basi si fondasse. Sembra che abbia percorso 40 miglia a piedi attraverso villaggi nei dintorni di Charkiv e che abbia trovato che le condizioni di vita fossero tristi. Gli ho suggerito che si trattava di una porzione piuttosto inadeguata per rappresentare un paese tanto grande, ma nulla ha scalfito la sua convinzione di una tragedia imminente”.
Duranty spiegava poi di aver voluto fare ricerche e accertamenti in proprio e concludeva che no, non c’era alcuna catastrofe, si mangia un po’ male e un po’ meno, ma non si muore di fame. Jones scrisse al New York Times, alcuni altri giornalisti si schierarono con lui, ma Duranty era troppo famoso e troppo accreditato: vinse la sua storia, non soltanto sulla “famine” ma soprattutto sul fatto che la collettivizzazione fosse stato un progetto di grande successo (come scrisse in questo famigerato articolo Duranty, “non puoi fare un’omelette senza rompere le uova”). Alla fine del 1933, l’Amministrazione Roosevelt aveva tutta l’intenzione di ignorare le cattive notizie in arrivo dall’Unione sovietica: in Germania stava arrivando Hitler. Quando Roosevelt decise di aprire le relazioni commerciali e diplomatiche con Mosca, il ministro degli Esteri russo arrivò a New York per firmare gli accordi: ad accompagnarlo c’era Duranty.
La Applebaum è da sempre molto attenta al ruolo dei media nella ricostruzione dei fatti russi e nel rapporto tra occidente, Urss e Russia moderna: lo è in “Red Famine”, ma lo era anche nel suo libro sull’est Europa e nel suo saggio più famoso, “Gulag”. Oggi racconta in ogni suo articolo come questa “isteria” abbia scandito la storia sovietica dell’ultimo secolo: in un’intervista sul centenario della Rivoluzione d’ottobre uscita sull’Octavian Report, la Applebaum ricorda che “di questi tempi abbiamo le campagne di fake news, i trolls, i bots, ma non c’è nulla di nuovo. La stampa russa a Petrograd nel 1916 e nel 1917 era presa dalla stessa isteria: storie ridicole sulla famiglia reale, rumors sull’Imperatrice, e soprattutto rumors sulla sua relazione con Rasputin”. La Russia è da sempre a caccia di “sabotatori” e di “spie” e oggi li ritrova soprattutto nel mondo dei media, tra quei giornalisti che non hanno più remore nel raccontare quel che avviene nel regime e nel suo immenso territorio. Quest’ossessione ha portato la Russia a imparare a utilizzare nel modo più opportunistico possibile – e più organizzato, e prima degli altri – i social media, Facebook e Twitter. Nell’ultima column sul Washington Post, la Applebaum racconta che le “troll factory”, quel sistema di destabilizzazione dell’occidente che si muove attraverso Facebook e Twitter, fa parte di una strategia più ampia, che affonda le sue radici in un’impostazione culturale votata alla manipolazione dei fatti: il problema è, oggi, che questo modello è facilmente replicabile da altri.
Due giorni fa, la Cnn ha raccontato un altro capitolo dell’enorme storia di ingerenza russa nella politica e nei media occidentali: le autorità americane stanno investigando l’oligarca Yevgeny Prigozhin, noto come lo “chef di Putin”, perché nel 2002 servì caviale e tartufi all’allora presidente George W. Bush durante un summit a San Pietroburgo ed era il proprietario del ristorante più esclusivo della città. Prigozhin sarebbe a capo di una “troll factory” che ha fatto circolare fake news durante la campagna elettorale americana del 2016. Una parte dell’azienda aveva una missione particolare: disseminare fake news con l’obiettivo di creare divisioni e scontri in occidente.
Si chiamava “Dipartimento delle provocazioni” ed è una definizione perfetta dell’ultima evoluzione della propaganda russa, che si muove da sempre sugli stessi binari. “Nel 2014 – scrive la Applebaum a conclusione del suo libro – i media di stato russi descrivevano le forze speciali russe che stavano invadendo la Crimea e l’est Ucraina come ‘separatisti patrioti’ che combattevano ‘i fascisti’ e i ‘nazisti’ di Kiev. Una campagna di disinformazione straordinaria, corredata di storie false, come quella sui nazionalisti ucraini che hanno crocifisso un bambino, e di fotografie false. Nonostante fosse ben più sofisticata di qualsiasi cosa potesse inventare Stalin in un’epoca anteriore ai media moderni, lo spirito della campagna di disinformazione era più o meno la stessa”.
E anche l’ossessione storica. Nell’agosto del 2015, i separatisti sostenuti dalla Russia hanno deliberatamente distrutto un monumento alle vittime della carestia degli anni Trenta, nella città di Snizhne. La stessa città da cui è stato lanciato il missile Buk che un anno prima aveva colpito l’aereo della Malaysian Airlines MH17, uccidendo tutti i passeggeri. Sempre nell’agosto del 2015 – cioè due anni fa, non un secolo fa – il sito pro regime Sputnik News, ha pubblicato un articolo in inglese intitolato “La bufala dell’Holodomor”. Definisce la carestia “uno dei miti più famosi del XX secolo e uno degli esempi più velenosi della propaganda anti sovietica”.