Da Merah 2012 a Malmö 2017, l'antiterrorismo Ue gira ancora a vuoto
Casi che sono la sintesi perfetta del problema che i servizi di intelligence devono risolvere: mi trovo davanti a una persona pericolosa oppure no?
Roma. Due giorni fa un tribunale di Malmö, in Svezia, ha disposto un compenso di poco più di diecimila euro a favore di un trentenne siriano che era stato arrestato a dicembre con l’accusa di avere dato fuoco due mesi prima – lanciando bottiglie molotov attraverso le finestre – a un centro culturale sciita. Il siriano era poi finito in un’aula di tribunale ad aprile ed era stato scarcerato a maggio, nonostante alcune prove forti, come il suo profilo di estremista e il fatto che i dati del suo telefonino confermassero la sua presenza sul luogo dell’attacco. La notizia del rogo a Malmö aveva fatto il giro del mondo perché il presidente americano, Donald Trump, l’aveva usata come esempio della Svezia diventata pericolosa per colpa degli stranieri musulmani e l’attacco era stato poi rivendicato dall’agenzia dello Stato islamico, Amaq, quando ancora quel canale del gruppo terroristico teneva a una parvenza di credibilità (finita in pezzi dopo la rivendicazione bizzarra della strage di Las Vegas). Il Sapo, il servizio di intelligence della Svezia, scoprì che l’uomo si definiva nelle sue chat private “un soldato dello Stato islamico” e che era entrato in contatto con Amaq – che è a tutti gli effetti un pezzo dello Stato islamico – prima della rivendicazione. In una chat aveva spiegato a sua madre: “Uccideremo tutto il mondo fino a quando Dio non sarà pregato da tutti al cento per cento”. Il centro sciita è un bersaglio ovvio per un uomo dello Stato islamico, perché il gruppo sunnita nutre un odio mortale contro gli sciiti considerati traditori della religione. La scarcerazione avvenne perché l’uomo era stato condannato all’espulsione dal paese, ma secondo la legge svedese non poteva essere rimandato indietro in un paese dove rischia la pena di morte. Quindi, senza una prova definitiva dell’attacco e con sulle spalle un carico di dichiarazioni pericolose ma non rilevanti dal punto di vista penale, fu rimesso in libertà. E poiché era stato detenuto senza una condanna, la corte ha ora disposto un risarcimento. Il suo avvocato dice che ora non sa come spedirgli il denaro, perché ne ha perso le tracce, non sa dov’è.
Nella partita tra servizi di sicurezza europei e le volenterose reclute dei gruppi terroristi il caso di Malmö ha l’aria di un fallimento che mostra l’inadeguatezza del sistema ancora adesso, nel 2017. La notizia cade mentre si celebra un processo simbolo: quello ad Abdelkader Merah, fratello e complice del fanatico francese che nel 2012 dopo essere tornato da un viaggio in Pakistan uccise prima tre soldati francesi in strada e poi tre bambini e un insegnante dentro a un asilo ebraico, filmando il tutto – ma il video non fu mai reso pubblico. Il dossier Merah è la sintesi perfetta del problema che i servizi di intelligence devono risolvere: mi trovo davanti a una persona pericolosa oppure no? Il processo ad Abdelkader è diventato così un’occasione per ripercorrere gli errori commessi nel 2012 con Mohammed. Il giovane di Tolosa non era legato allo Stato islamico, ma era in contatto con al Qaida e le deposizioni di ieri in tribunale sono state molto interessanti. Prima ha parlato “l’agente Hassan” dei servizi, da dietro un paravento e con voce camuffata, che aveva avuto il compito di sorvegliare Merah al ritorno dai suoi viaggi e l’aveva definito pericoloso, contro il parere di altri colleghi venuti da Parigi. Poi è stato ascoltato l’ex direttore dei servizi segreti interni (la Dcri), Bernard Squarcini, che non ha offerto spiegazioni granché soddisfacenti: era il 2012, ha detto, visitare zone di guerra non era ancora un reato e non c’erano motivi per insospettirsi. L’avvocato della famiglia di uno dei bambini uccisi ha messo in imbarazzo l’ex direttore: “Perché ha dichiarato al Monde che Merah era un lupo solitario?”. Squarcini risponde di aver definito Merah “lupo solitario” soltanto a caldo, quando ancora non si era capito il ruolo di al Qaida. “E cosa credeva che avesse fatto in Pakistan, turismo?” Io ero il direttore dei servizi interni, ha risposto – come a dire: non potevo occuparmi anche di quel lato estero.