Il romanzo patriottico spagnolo in cerca di lieto fine
Dopo i tumulti della catalanità opulenta e anarchica contro un giovane re che vuole tenersi la testa, dopo gli scacchi tra il temporeggiatore e l’indecisionista, servirebbe un capitolo razionale per quel paese che ancora si chiama Spagna
Nel romanzo patriottico di Barcellona, e di Madrid, se è per questo, c’è tutto quello che ci deve essere. Ci sono i due capi della piazza, gente di un pulito estremismo da società civile, i due Jordi, incarcerati per tentata sedizione da lunedì scorso, tra le più vive proteste. Ci sono quindicimila poliziotti catalani armati e inquadrati, i Mossos d’Esquadra, uno dei corpi armati più antichi d’Europa, che tra convinzioni personali, logica di corpo, formazione catalanista in corso da decenni, condizionamenti ambientali e istruzioni della Comunità autonoma sono come travolti dalla loro stessa ambiguità e non sanno che pesci pigliare, ma riluttano a una disciplina centralista e flirtano con l’indipendentismo. Ci sono le imprese e i centri finanziari in fuga da una regione ricca e ormai insicura. C’è la Guardia civil di obbedienza statale male alloggiata e dispersa, pronta alla bisogna anche a partire dalle navi-albergo alla fonda fuori del porto. Ci sono le folle secessioniste e quelle unioniste, tanta gente e pacificamente tumultuante in un tripudio di bandiere. C’è un’ala radicale della Generalitat, governo e parlamento autonomisti, che vive tutta questa storia nel segno del vecchio anarchismo catalano degli anni Trenta. C’è a Madrid un partito della repressione senza tentennamenti, sebbene la parola sia un po’ troppo sonora visto che nel momento culminante del grande scontro sul referendum del primero di ottobre si sono registrati due soli ricoveri ospedalieri in pronto soccorso. La saldatura di regionalismo opulento, nazionalismo, anarchismo, patriottismo repubblicano contro un giovane re che non gradisce gli si tagli la testa è una cosa seria, e anche grave, ma con le cautele del segno cool e modernizzante che connotano l’opulenta sinistra catalana, alla fine avanguardia del movimento, i moderati di entrambe le parti e a Madrid l’asse politico tra popolari, socialisti e ciudadanos, non senza l’appoggio esterno di Podemos, che sostiene lo Estado de derecho, la legalità costituzionale, contro la fuitina approntata in fretta e furia dagli indipendentisti.
Il gioco del cerino o balletto tra il potere costituito e il potere costituente, di cui vediamo le sequenze in atto in quel paese che ancora possiamo chiamare Spagna, è comunque uno spettacolo di prima qualità. Io faccio in un minuto una legge catalanista per tenere un referendum secessionista pirata e cambiare confini e forma dello stato. Io lo dichiaro illegale e mando i carabinieri per una repressione diciamo così barzotta. Io prendo atto di un voto minoritario eppure massiccio e mi considero mandatario dell’indipendenza, ma ne sospendo la dichiarazione formale con parole ambigue. Io ti chiedo tassativamente di chiarire se ti sei messo fuori della Costituzione, e ti pongo un paio di ultimatum (ultimatum è sempre parola declinata al plurale). Io ti chiedo un dialogo alla pari impossibile, un riconoscimento di fatto. Io te lo nego. Io alla fine di scrivo che non ho mai dichiarato formalmente l’indipendenza, ma potrei farlo in futuro se il dialogo è rifiutato. Io allora avvio con una certa calma le procedure dell’esecutivo e del Senato per far scattare l’articolo costituzionale più chiaro del mondo, il 155 approvato quaranta anni fa a Madrid dopo la fine del franchismo, in cui si autorizza il governo centrale a sostituire le funzioni di una comunità autonoma insubordinata che opera contro l’interesse generale dello stato, ma posso graduare le misure per evitare eccessi di reazione, in considerazione della situazione difficile dei Mossos d’Esquadra, della tempesta emozionale della piazza e di altri fattori in gioco. Io minaccio di boicottare l’esecuzione dei tuoi ordini centralisti attraverso la disobbedienza civile e la resistenza passiva. Io ti convoco nuove elezioni catalane e vediamo come va a finire, nell’isolamento internazionale del catalanismo e nel terremoto dell’economia e del turismo, tutta questa sceneggiata. Io posso convocare da solo queste elezioni. Eccetera.
Mariano Rajoy ha il piglio dell’indecisionista, che gli procura una cattiva fama tra gli impazienti ma gli permette di guidare una rassicurante rincorsa da posizioni di vera forza, la famosa partita a scacchi. Anche Carles Puigdemont è un giocatore di livello, così almeno sembrerebbe, anche lui sa come decidere di non decidere, e aspettare che avvenga ciò che può secondo virtù e fortuna, “di cosa nasce cosa e il tempo ne governa” diceva Machiavelli. La trama del racconto d’appendice, puntata dopo puntata, è avvincente. Ma staccare un pezzo del popolo in rivolta dalla mistificazione accelerata e febbrile, dopo i trionfi della catalanità culturale, e ricostruire una classe dirigente in grado di guidare il movimento verso approdi razionali, ecco, è la puntata che vorremmo leggere, a segno di lieto fine, e di cui fino ad ora ci sono le premesse ma non è stata scritta nemmeno una riga. Quando una sezione ricca di una nazione mescola interesse, patriottismo repubblicano, nazionalismo, anarchismo, storia e mito in un impasto di lingua e di identità così forte, il finale è difficile da immaginare.