Un paper spiega come ridurre il divario tra élite e grande pubblico
Il think tank londinese Chatham House cerca le differenze e le affinità tra cittadini e classe dirigente. C'è qualche sorpresa
Roma. Quanto sono distanti davvero le élite e i popoli europei? Parte della crisi dell’Unione europea e del successo del populismo è attribuita alla mancanza di contatto tra chi prende le decisioni e chi le subisce, così Chatham House, think tank londinese tra i più importanti al mondo, ha condotto uno studio, pubblicato lo scorso giugno, per cercare di misurare e comprendere questa distanza. Il paper raccoglie sondaggi realizzati tra dicembre 2016 e febbraio 2017 in dieci paesi europei: Germania, Austria, Belgio, Spagna, Francia, Grecia, Ungheria, Italia, Polonia e Regno Unito. Il think tank ha condotto sondaggi dividendo gli intervistati in due categorie: il “grande pubblico” di ogni paese, cittadini selezionati secondo criteri di età, istruzione e provenienza geografica, per un totale di 10.195 persone; e le élite, selezionate tra individui che hanno una posizione di influenza a livello locale, regionale, nazionale ed europeo e rappresentativi di quattro settori chiave: la politica, i media, il mondo degli affari e della società civile, per un totale di 1.823 persone, circa 180 per paese.
Nelle conclusioni, i tre autori – Thomas Raines, Matthew Goodwin e David Cutts – individuano tre tendenze esemplificative delle differenze e delle affinità tra i due gruppi. In primo luogo, in entrambe le categorie il sentimento favorevole all’Europa è maggioritario: il 56 per cento del grande pubblico e il 68 per cento delle élite dichiara di sentirsi “molto” o “abbastanza” fiero di essere europeo, senza che questo risulti incompatibile con il senso di appartenenza alla propria nazione. Le differenze esistono: le élite sono più liberali e ottimiste, e ritengono di avere beneficiato dell’integrazione, larghe parti del grande pubblico hanno una visione meno entusiastica dell’Unione e vorrebbero che una parte dei poteri delle istituzioni europee venga restituita agli stati membri. Solo il 34 per cento dei cittadini crede di aver beneficiato dell’appartenenza all’Unione, contro il 71 per cento delle élite. La differenza di percezione sull’integrazione europea è un tema da affrontare, le opinioni sono sempre meno convergenti (e forse lo sono sempre state), ma non emerge quel “fallimento” e quella “sconnessione” delle élite su tutti i fronti. I test elettorali del 2017 in Francia e Germania hanno sì visto un aumento dei consensi dei partiti euroscettici, ma hanno imposto due leadership europeiste e d’establishment.
In secondo luogo, le questioni che marcano una differenza profonda tra i due gruppi non riguardano l’economia, ma l’approccio rispetto ai temi identitari, più aperto e liberale nelle élite (il 58 per cento crede che gli immigrati arricchiscano la vita culturale dei paesi di residenza) più autoritario nel grande pubblico (solo il 25 per cento la pensa in questo modo). Approfondendo i dati, questa divisione non appare influenzata dal livello di reddito di chi risponde: “Per questo motivo la sfida che questi risultati lanciano è destinata a riproporsi per molti anni, anche se la crescita economica dovesse perdurare o aumentare”, sostengono gli autori. Infine, se le élite sembrano pensarla in maniera omogenea rispetto all’analisi della situazione attuale, non appaiono come un blocco monolitico sulle scelte future dell’Unione. Il 37 per cento vuole dare più poteri all’Unione, il 31 per cento ritiene invece sia necessario ridare più poteri agli stati membri e il 28 per cento vorrebbe mantenere lo status quo. Ciò vuol dire, scrive Chatham House, che l’Unione europea ha bisogno di un dibattito pubblico più aperto e approfondito sul suo futuro, dato che proprio chi dovrebbe pilotare l’integrazione futura non è d’accordo su quale strada intraprendere. E’ necessario inoltre, concludono gli autori, che chi guida la società europea comprenda perché le sue percezioni siano spesso distanti da quelle dei cittadini comuni.