Perché il piano economico del governo catalano è un libro di favole
Dal referendum a oggi tra le 100 e le 200 imprese al giorno hanno trasferito la loro sede legale fuori dalla Catalogna perché temono per la sicurezza giuridica dei loro affari
Roma. Le pmi e multinazionali fuggite dalla Catalogna dopo il referendum per l’indipendenza dello scorso 1° ottobre e il pasticcio politico e istituzionale dei giorni successivi sono più di 1.300. I dati, aggiornati a venerdì della scorsa settimana, sono stati elaborati dal Colegio de Registradores de España e mostrano che il suicidio economico della Catalogna secessionista, dopo i grossi colpi delle multinazionali come Banco Sabadell e Caixa, si è trasformato in uno stillicidio continuo in cui, a partire dal 9 ottobre, ogni giorno hanno trasferito la loro sede legale fuori dalla Catalogna tra le 100 e le 200 imprese, che temono per la sicurezza giuridica dei loro affari. Le conseguenze economiche della sfida indipendentista di Barcellona contro il governo di Madrid sono peggiori di ogni previsione, e sono una smentita palese del discorso rassicurante con cui il governo catalano – e in particolare il vicepresidente Oriol Junqueras, responsabile dell’agenda economica – cerca di convincere comunità internazionale e imprese della bontà del progetto secessionista.
Oltre alla fuga delle società catalane, preoccupa anche il blocco degli investimenti: secondo un sondaggio commissionato qualche giorno fa dalla Pimec, l’associazione delle piccole e medie imprese catalane, il 19 per cento delle società interpellate ha fermato ogni progetto di investimento (10 per cento) o intende farlo (9 per cento) a causa dell’insicurezza finanziaria. Secondo lo stesso sondaggio, il 54 per cento delle pmi catalane ha paura che l’instabilità della situazione politica possa provocare danni economici al loro business. Poi c’è il turismo. Se è vero che, ancora a settembre, i pernottamenti negli hotel della Catalogna crescevano (del 2,3 per cento, in calo rispetto al 6,6 per cento di crescita dell’anno scorso), per il periodo post referendum l’associazione delle compagnie turistiche spagnole Exceltur ha previsto una riduzione delle prenotazioni del 20 per cento con perdite per 1,19 miliardi di euro, che potrebbero arrivare al 30 per cento e a perdite per 1,8 miliardi in caso di “disordini in strada”.
Fino a questo momento, tutti i tentativi di Junqueras di porre riparo alla situazione sono andati falliti. I giornali spagnoli sono pieni di retroscena su riunioni dell’ultimo minuto in cui il vicepresidente ha cercato invano di convincere i dirigenti d’azienda a non andarsene. Nel tentativo di diffondere una visione più rassicurante, il 15 ottobre Junqueras ha pubblicato un nuovo piano economico intitolato “La situazione dell’economia in uno stato catalano” che ieri il País ha analizzato e in gran parte smontato: la programmazione economica della Catalogna indipendente si basa in gran parte sul whishful thinking. Junqueras per esempio continua a dare per scontato che una Catalogna indipendente rimarrà nell’Unione europea o, quanto meno, nel mercato unico, senza considerare che molti dirigenti Ue si sono espressi proprio in senso contrario. Sostiene inoltre che il cambiamento di sede sociale delle imprese non ha effetti economici reali: è vero che lo spostamento di sede non trasferisce automaticamente i dipendenti, ma alcune aziende, a partire da Sabadell, stanno iniziando a spostare a Madrid anche buona parte dei propri dirigenti, mentre altre, come abbiamo visto, congelano gli investimenti in Catalogna. La situazione, dunque, è grave per davvero, e questo è un problema anche per la Spagna. Il ministro del Tesoro, Cristóbal Montoro, ha ridotto le previsioni di crescita del pil spagnolo dal 2,6 per cento al 2,3 per il 2018, e il crollo del settore turistico catalano previsto da Exceltur provocherebbe una riduzione della crescita del business turistico nell’intera Spagna dal 4,1 al 3,1 per cento. Ma come ha scritto il giornale El Confidencial, le imprese catalane hanno esercitato il loro “diritto all’autodeterminazione” andandosene dalla regione, segno che il business sa dov’è il rischio maggiore. L’ultima azienda che, con una lettera interna ai dipendenti, ha anticipato la possibilità di trasferirsi è Seat, la più grande industria del paese.