Non solo Weinstein
Silicon Valley si riprende il primato su Hollywood. Denunce per molestie che diventeranno un film
Roma. Nel clima di rivalità tra Hollywood e Silicon Valley sembrava che la prima avesse avuto la sua rivincita con l’affare Weinstein, ma la terra del silicio è tornata all’attacco. Domenica infatti per la prima volta ha parlato con un giornale la gola profonda della Valle, quella Susan Fowler che l’anno scorso aveva denunciato il clima di molestie a Uber causando psicodrammi, la cacciata del fondatore dell’azienda e l’inizio del tormentone sessistico come “discorso” rilevante in America. Susan Fowler, 26 anni, è la dipendente che a febbraio con un post sul suo blog (“Riflessioni su un’annata molto, molto strana a Uber”) ha denunciato il clima infame nell’azienda di trasporti: il caso aveva scatenato un’inchiesta interna, leak vari – mail più o meno porcellone e dopolavoristiche del ceo Travis Calanick, presunte gite in karaoke con signorine a petto nudo –, il generale vituperio, lo scoppio del problema del machismo in Silicon Valley (che esiste sul serio, anche solo perché i laureati in informatica sono al 90 per cento maschi).
Fowler è diventata una paladina, e ha una storia perfetta. Famiglia povera dell’Arizona, figlia di un venditore di telefoni e pastore evangelico, si è fatta tutta da sola; a forza di borse di studio è arrivata a lavorare nella startup (all’epoca) più fica del mondo. Salvo arrivare lì e scoprire che il clima era un po’ da Mad Men. Un collega le fece delle avance, lei riportò il tutto alle risorse umane, quelli cambiarono lei di ufficio, tutto fu insabbiato. Lei, invece che subire, denunciò e dette le dimissioni. Poi scoppiò il finimondo, che è durato pochi mesi, subito sovrastato dal sessismo più old economy di Weinstein.
Negli ultimi cinque anni la rivalità tra le due piazze è altissima, tipo Milano-Roma un tempo, prima della definitiva vittoria morale lombarda: un tempo i siliconvallici sfottevano i losangelini (solo-le-palme, avete solo-le-palme), i sudisti ricambiavano dicendo che a San Francisco ci stanno solo nerd e barboni (che è vero). Ultimamente però il problema è più serio: alcune primarie startup anche cresciute aprono giù al sud (Snapchat a Los Angeles, sulla spiaggia, e anche Google sta delocalizzando a Venice in quella che è stata già ribattezzata Silicon Beach). Hollywood in particolare si sente molto minacciata nel suo core business cinematografaro dalle produzioni miliardarie nordiste di Netflix e Amazon. Gli studios sono in crisi; sempre più Oscar e Emmy vanno alle startup che minacciano di utilizzare algoritmi come sceneggiatori. Il 2017 sarà ricordato infatti non solo come l’anno della busta sbagliata ma quello delle due statuette ad Amazon, per “Manchester by the sea” di Kenneth Lonergan (miglior sceneggiatura originale, miglior attore protagonista a Casey Affleck) e uno a Netflix per “The White Helmets”, di Orlando von Einsiedel). Nel frattempo agli Emmy Netflix si è portata a casa 20 premi, risultato dei 6 miliardi di dollari investiti nei contenuti. Il 2017 è anche l’anno in cui le sale cinematografiche hanno incassato meno nella storia del cinema, 10 miliardi, mentre Netflix è quotata 60 miliardi in Borsa.
In questo scenario, in cui Hollywood teme di trasformarsi in un parco a tema, lo scoppio della bolla sessuale sembrava aver segnato il ritorno della rilevanza. Ma non è passato neanche un mese che il New York Times ha sfornato l’intervista siliconvallica, la prima in cui Fowler si racconta (alla divina Maureen Dowd). La manager dopo lo scandalo vive addirittura sotto scorta, è incinta al settimo mese, e non tornerebbe a lavorare a Uber nemmeno per tutto l’oro del mondo. Nel frattempo ha un suo club del libro (tutti ce l’hanno in Silicon Valley), è direttrice di Increment, un magazine che è tipo il New Yorker dei programmatori, è sempre sposata con Chad Rigetti, che guida una delle startup più interessanti di Silicon Valley nel settore dei computer quantistici (ci siamo stati per il Foglio). Ma soprattutto (nemesi): dice che adesso, dal suo caso, udite udite, si farà un film. Una via di mezzo tra “The social network” e “Erin Brockovich”. Rimane il quesito fondamentale: sarà prodotto giù a Hollywood o su a San Francisco?