Carles Puigdemont durante la sua conferenza stampa a Bruxelles (foto LaPresse)

Ma quale “europeizzazione” catalana

David Carretta

Con la fuga a Bruxelles, Puigdemont ha commesso un errore fatale

Bruxelles. Carles Puigdemont potrebbe aver commesso un errore fatale con la sua decisione di portare in esilio nella capitale europea una parte del deposto governo della Catalogna. Charles Michel, il premier belga che aveva espresso simpatia per la causa catalana condannando la violenza e invocato il dialogo tra Madrid e Barcellona, è tornato nei ranghi dell’Unione europea dopo che Puigdemont ha annunciato la permanenza sua e di cinque membri del suo esecutivo in esilio a Bruxelles. “Non sono qui per chiedere l’asilo politico”, ha spiegato l’ex presidente della Generalitat durante una caotica conferenza stampa. Ma Puigdemont resterà a Bruxelles per “sicurezza”, pronto a tornare solo se ci saranno garanzie di un “processo equo” dopo l’accusa di ribellione e sedizione per aver proclamato la Repubblica. Il leader catalano sarà “trattato come un qualsiasi cittadino europeo (…), né più né meno”, ha risposto il belga Michel: Puigdemont non è stato invitato, il suo arrivo non è stato concordato e alla fine – si legge tra le righe del comunicato del premier belga – non è troppo gradito. Il Belgio, che nelle scorse settimane ha rischiato una crisi diplomatica con Mariano Rajoy per aver chiesto di risolvere con “il dialogo politico una crisi politica”, ora avrà “contatti diplomatici regolari con la Spagna alla luce delle circostanze attuali”. Quanto agli altri partner europei, nessuno si è commosso. “E’ e rimane una questione interna alla Spagna”, ha detto la Commissione di Jean-Claude Juncker.

L’obiettivo di Puigdemont è di “internazionalizzare” la crisi catalana, dice al Foglio una fonte indipendentista. Ieri il presidente deposto della Generalitat ha chiesto “all’Europa di reagire”, perché “la questione catalana è alla base dei valori su cui l’Europa si fonda: democrazia, libertà, libertà di espressione, ospitalità, non violenza. Accettare che il governo spagnolo non dialoghi, che tolleri la violenza dei gruppi di estrema destra, che si imponga militarmente e ci metta in galera per 30 anni, è la fine dell’idea dell’Europa”. La mossa avrebbe avuto senso all’indomani dello pseudo-referendum del 1° ottobre per capitalizzare la simpatia dell’opinione pubblica internazionale e i malumori di alcuni governi europei a causa del dispiegamento della Guardia Civil. 

 

La litania della Commissione Juncker sugli affari interni spagnoli mostra quanto l’Ue sia incapace di affrontare un conflitto nazionalistico come quello ispano-catalano. Bruxelles si immagina come una forza centripeta che supera culturalmente i confini nazionali e ripudia la balcanizzazione in tutte le sue forme. La narrativa della Catalogna democratica, nonviolenta e europeista avrebbe potuto rimettere in discussione le certezze politico-culturali dell’élite dell’Unione europea. Ma gli ultimi trenta giorni hanno screditato l’allegro indipendentismo delle Ramblas. La dichiarazione di indipendenza sospesa ma solo per un po’, la scelta di non convocare in modo autonomo elezioni ma di partecipare al voto del 21 dicembre indetto da Madrid, la fuga in Belgio con il governo in esilio ma solo a metà: tutto questo ha messo in luce l’improvvisazione populista (compresa la conferenza stampa di ieri in una saletta da cinquanta posti per trecento giornalisti) come metodo politico da parte di Puigdemont e soci.

 

C’è già molta improvvisazione

Esportare la crisi in Europa è “controproducente per la causa catalana”, spiega al Foglio un funzionario di lungo corso. “L’Unione europea è già alle prese con l’improvvisazione dei sostenitori della Brexit e non ha appetito per altre crisi esistenziali”, con tutto quel che deve gestire in questo momento. I membri del club europeo si difendono tra loro, a meno che uno non decida di rimettere in discussione l’esistenza stessa del club, ma il premier Mariano Rajoy non è il polacco Kaczyński né l’ungherese Viktor Orbán. Anzi: dopo l’errore del 1° ottobre, il premier spagnolo si è limitato a rispondere in modo proporzionato con ogni sua mossa alle azioni dell’ex governo della Generalitat. Compresa la convocazione di elezioni il 21 dicembre prossimo, invece di fare ciò che gli indipendentisti già denunciavano (prendersi qualche mese per epurare la pubblica amministrazione e riallineare la televisione pubblica catalana). Puigdemont ora sta cercando di capitalizzare con il vittimismo interno: Rajoy “rispetterà il risultato delle elezioni, qualunque possa essere?”, ha chiesto ieri, lasciando intendere che la democrazia sarà negata mantenendo l’articolo 155 anche dopo il voto. Ma per l’élite dell’Unione europea ormai il verdetto politico è chiaro: “Puigdemont ha lasciato la Catalogna nel caos e nella devastazione”, ha sentenziato Guy Verhofstadt, leader dell’Alleanza dei liberali europei di cui fa parte il partito di… Puigdemont.

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