Repubblica catalana senza Picasso
Gli indipendentisti hanno due soli modi di trasformare le loro idee in un fatto: con la forza o con un cambiamento della Costituzione, riducendo la Carta fondamentale alla caratura giuridica di un contrattino rescindibile
D’accordo, sono secoli che la Catalogna coltiva il fomite dell’indipendentismo, i suoi miti, le sue leggende. Ma c’è il problema di Pablo Picasso, il più grande pittore del Novecento, uno che ha per sé lo statuto di innovatore secolare, uno che ha lacerato un modo di pensare il mondo e di rappresentarlo in vigore dai tempi della bottega del Verrocchio (era il Quattrocento). Picasso era di Malaga, un andaluso (i catalani detestano gli andalusi). Lì fece le prove dell’infanzia e prima adolescenza, lì scoprì zingari e saltimbanchi adorati nelle sue tele da molti milioni di europei e di occidentali. Poi passò a La Coruña, in Galizia, dal sud al nord, dal colore al grigio piombo, e lì si esercitò precocemente a disegnare fari e mare, scoprendo anche la noia dell’accademismo (non amava la scuola, era troppo dotato). Poi andò a Madrid, dove visse alcun tempo e visitò con una certa emozione il Prado e la pittura nazionale e di corte, il realismo tragico e il patetismo castigliano, per non parlare delle gite a Toledo per el Greco e la sua “Sepoltura del conte di Orgaz”. Poi si trasferì a Barcellona, imparò il catalano, e trattò la città, nella sua formazione di ometto e di giovanissimo artista, come un varco aperto verso la cultura europea, con i suoi bordelli del Barrio Chino, le sue Ramblas e i suoi cabaret d’avanguardia. A diciannove anni andò a Parigi, non a Bruxelles come ha fatto Carles Puigdemont, e quella fu la città della sua fioritura e del suo folle volo, per molti anni fece la spola Parigi-Barcellona, con frequenti soste nei monti Pirenei. Poi stabilì radici nella campagna dell’Eure, infine come tutti sanno nel sud della Francia, in Provenza, a Saint-Paul-de-Vence, per i bagni a Juan-les-Pins, a Mougins fino alla fine (e gli piaceva la Catalogna francese, c’è anche quella, il Roussillon). La verità profonda della crisi spagnola in corso è in questo sublime vagabondaggio e nei suoi colori, nelle sue forme sode e monumentali disformità che hanno dell’andaluso, del galiziano, del castigliano, del catalano e dell’europeo. Quei traditori che parlano di contrattini da annullare su base multiregionale, come se al sovrano si tagliasse la testa appo notaio, e ce n’è uno annidato in questa rispettabile redazione e per giunta mio caro amico, dovrebbero riflettere: l’articolo 155 della Costituzione democratica spagnola post franchista è l’articolo 155 Picasso Cost., nulla di meno.
Il molto onorevole delegato che ora rappresenta a Barcellona el Gobierno de Madrid, in applicazione del 155, ha dichiarato che i catalani voteranno liberamente il 21 dicembre, la legalità costituzionale è stata ripristinata, nessun funzionario si è opposto alla reinstaurazione dello stato di diritto, nemmeno l’ex presidente della Generalitat insorgente (che ha meritato i complimenti di Madrid per questa accettazione delle libere elezioni e legali, sebbene dichiarata nel suo strano rifugio di Bruxelles), e ha aggiunto che tutte le idee vanno rispettate, anche quelle indipendentiste, ci mancherebbe, faltaria más.
Non ha detto però che tra le idee e i fatti politici c’è una certa quale distanza, che invece va ricordata per onestà.
Quando il potere costituente sfida il potere costituito le idee indipendentiste si trasformano come per incanto in fatti, e la Costituzione garantisce la libera circolazione delle idee ma è per sua natura ostile a ogni forma di secessione, che è un’idea divenuta fatto. I catalani indipendentisti hanno due soli modi di trasformare le loro idee in un fatto: con la forza, se piaccia loro una bella guerra civile, o con un cambiamento della Costituzione, riducendo la Carta fondamentale dello stato alla caratura giuridica di un contrattino rescindibile, e abolendo l’articolo Picasso Cost., non c’è una terza via col cerchietto e il pugno chiuso e la fuga in Belgio. Hanno già messo nei guai l’economia, perché c’è chi scappa in Belgio e chi scappa a Madrid, come le imprese impaurite dall’illegalismo e dall’anarchia normativa, e ora provano a mettere nei casini con una specie di asilo politico sui generis anche il governo di M. Charles Michel, senza tenere conto che i belgi per fare un governo ci mettono in media due o tre anni. Spero che i traditori della comune patria europea e borbonica abbiano visto tutti la conferenza stampa in diretta di Carles P. La faccia lo tradisce. Puigdemont è un giocatore d’azzardo, un goliardo che scherza col fuoco. E’ anche simpatico, ma si comporta da truffaldo. A parte altri particolari come il fatto che gli hanno tolto la scorta, e lo credo, e che la Fiscalía lo minaccia in un processo per trent’anni di galera, un processo alle idee dice lui, ma no, dai, sarebbe un processo ai fatti o al tentato fatto e el Rey gli darebbe la grazia dopo qualche mese al fresco, a parte tutto questo, Carles dice che nel programma del partito indipendentista era scritto chiaro e tondo che avrebbero dichiarato la indipendenza della Catalogna e la secessione dallo stato spagnolo, e il programma, ecco il goliardo, era convalidato dall’autorità centrale. Fa finta di non sapere, l’ex presidente, che se dovesse rivincere le elezioni, magari come già successo in seggi e non in voti, cioè senza maggioranza assoluta, il problema della trasformazione delle idee in fatti gli si riproporrebbe. Nessuno negozia alla pari con chi vuole ammazzarlo, e la secessione catalana sarebbe la fine dello stato spagnolo, ovvio. Nessuno processa le idee, e infatti quei cattivoni di Madrid non fanno che fare elezioni dappertutto, e libere, altro che asilo politico e garanzie, e Rajoy si adegua alla regola e gioca a scacchi, ma senza azzardi, si limita a ribadire, e lo farà finché lo stato campa, che tu puoi dire tutto quello che ti pare ma se vuoi farti la tua Repubblica devi cambiare l’articolo che trae il suo vero nome da Pablo Picasso.
L'editoriale dell'elefantino