Meglio non fare tanto gli snob con le operazioni di disinformazia russa
Si dice: non mi faccio dire come votare da un tizio su Twitter. Sarebbe bello se fosse davvero così. Però ci sono un paio di elementi che suggeriscono di essere pessimisti
Roma. Non saremo mai così fessi da farci condizionare prima del voto da un post su Facebook vero? Questa settimana si è parlato molto delle interferenze via internet da parte del governo russo per guidare gli elettori in altri paesi. E’ cominciata con le audizioni di Facebook, Twitter e Google davanti al Congresso americano – culminate nel silenzio patetico alla domanda: “Accettavate pubblicità politiche pagate in rubli. Come avete fatto a non fare due più due?” – ed è finita con la copertina dell’Economist di ieri, “La minaccia dei social media alla democrazia”. Ma la risposta a questo dossier che ogni giorno diventa sempre più dettagliato sui giornali americani è in molti casi una scrollata di spalle. Non mi faccio dire come votare da un tizio su Twitter, non me lo farò dire mai. Sarebbe bello se fosse davvero così e se le campagne di disinformazione su internet fossero un elemento marginale del gioco politico, e però ci sono un paio di elementi che suggeriscono di essere pessimisti.
Il primo è che per ogni elettore informato che si sente invulnerabile alla propaganda di bassa fattura ce ne sono di più che invece sono esposti – espostissimi – a questo genere di operazioni. Secondo il centro Pew di ricerca statistica, il 67 per cento degli americani nel 2017 (fino al mese di agosto) ha appreso alcune notizie dai social media ogni giorno, nel 2016 era il 62 per cento. Gli americani che vedono le notizie “quasi soltanto” su Facebook sono molti meno, circa il 20 per cento, ma si tratta pur sempre di un quinto dell’audience e nessuno sano di mente – in particolare il direttore di un canale televisivo o il capo di una campagna elettorale – direbbe che il 20 per cento è una percentuale bassa. Inoltre sappiamo che è destinata ad aumentare. Insomma: ci sono elettori che leggono l’ultimo libro di Roberto Calasso e hanno una mazzetta di quotidiani e riviste sul tavolo di lavoro, ma sono rappresentativi della maggioranza? Probabilmente no.
Il secondo motivo per essere pessimisti è che queste operazioni di disinformazia non sono così grossolane come le immaginiamo. In questi giorni stiamo scoprendo che i troll russi che impersonavano cittadini americani su Twitter facevano un lavoro di ottimo livello, sopra ogni aspettativa. “Jenna Abrams”, una finta blogger americana recitata su Twitter da un russo, creava molta attenzione, aveva un seguito di settantamila persone, battibeccava con l’ex ambasciatore americano in Russia, Michael McFaul, e faceva una sfegatata opera di proselitismo a favore di Trump. Settantamila è un numero basso? Non sappiamo quanti si sono fatti persuadere dai suoi argomenti, forse nessuno? Può essere, ma “Jenna Abrams” è stata citata da Yahoo News, Washington Post, Sky News, Telegraph, Independent, Business Insider, National Post, Cnn, Bbc, Times of India, France 24, BuzzFeed, Daily Mail, New York Times e molti altri, inclusi ovviamente Russia Today e Sputnik, i due canali ufficiali della propaganda di Mosca. Immaginate le risate, alla sera, negli uffici dell’agenzia del governo russo che si occupa di prendere per scemi gli iscritti a Twitter con la foto falsa di una bella blogger americana. Costo quasi zero, effetti ancora non compresi. Quanti follower ci vogliono per definire un clima politico? E contano più mille follower comuni oppure un follower prestigioso? Michael Flynn, ex consigliere per la Sicurezza americana di Trump, durante la campagna seguiva cinque impostori russi e a volte li ritwittava. E anche la manager della campagna Kellyanne Conway, il figlio di Trump Donald Trump Jr. e il direttore della campagna digitale Brad Parscale seguivano questi account finti mantenuti da dipendenti pagati con i soldi delle tasse dei contribuenti russi. E sebbene ci fossero molti sospetti tra alcuni unhappy few, la stragrande maggioranza trovava lo spettacolo perfettamente normale. La vittoria di Trump dovrebbe servire come promemoria a chi ancora crede che siamo meglio di così: siamo figli di un bot minore, meglio fare attenzione e mettersi a studiare.