Ragioni (postume) della secessione catalana
Sedersi dalla parte del torto e scoprire che Spagna ed Europa non hanno tutte le ragioni. I problemi sottaciuti
Ci sedemmo dalla parte del torto, eccetera. L’aforisma brechtiano viene buono in un mucchio di occasioni, non sempre adatte. Ma il finale al momento più grottesco che drammatico della questione catalana mette al riparo da possibili abusi: sono così tanti gli errori, le non ragioni e le figuracce di Carles Puigdemont e dei suoi che la parte del torto può essere una seggiola soltanto virtuale. Il che non dovrebbe impedire, però, di domandarsi se dalla parte della ragione ci siano soltanto ragioni, e tutte buone. E soprattutto se tutti coloro che ci si sono volenterosamente accomodati abbiano tutte le carte in regola. Ci sono alcune cose che si possono dire, sulla Catalogna, e sono state poco o punto sentite in questi mesi. La prima questione riguarda il problema della legittimità. E’ legittimo, nel Terzo millennio europeo, che i cittadini di una regione, qualora abbiano la maggioranza qualificata, decidano di secedere da uno stato e ridurre la Carta fondamentale al rango di un contratto (sociale) rescindibile? Sì, lo è. Altrove è accaduto. In Scozia hanno provato, legittimamente, e hanno perso. Il Regno Unito ha scelto la secessione dall’Unione europea. Sciagurata ma legittima, e adesso sono, in punto di diritto, affari loro.
Nel modo extra costituzionale con cui si è provato a Barcellona, certo non si poteva. Su quella via avrebbero dovuto optare per la guerra civile, ma non pare ci sia la tempra né le condizioni. Questo avrebbe potuto consigliare al governo di Madrid di tollerare il referendum del primo ottobre come un sondaggio consultivo senza conseguenze. Nel 2010 e 2014 analoghi voti si svolsero, vinsero gli indipendentisti ma con percentuali non superiori al 25 per cento della popolazione e non successe nulla. Avere negli anni precedenti contribuito a esacerbare gli animi – la revoca da parte del governo Rajoy nel 2010 dei nuovi statuti approvati con Madrid nel 2006 – e avere ingaggiato un braccio di ferro arrugginito è un segno di debolezza dello stato nazionale (regno) e di paura, le cicatrici resteranno.
Legittimità e paura. La reazione degli stati europei e dell’Unione davanti alle iniziative catalane è stata dapprima reticente e preoccupata, per poi diventare esplicita condanna. Nessuno avrebbe mai riconosciuto una Catalogna indipendente. Il presidente del Parlamento europeo, Antonio Tajani, ha parlato a voce alta e per tutti contro il rischio delle piccole patrie. Seduto dalla parte della ragione, ça va sans dire. Ma non è sempre andata così, in Europa. Nel 1991, al momento del collasso dell’ex Urss, il riconoscimento internazionale dell’indipendenza delle Repubbliche baltiche da Mosca fu unanime e rapidissimo. Compresa l’Ue, mentre il segretario di stato americano James Baker diceva “ciò che noi vogliamo è l’indipendenza degli stati baltici, il più presto possibile”. Certo, le tre repubbliche erano state annesse manu militari da Stalin nel 1941 e l’annessione non era mai stata riconosciuta. Ma il principio di autodeterminazione dei popoli, sancito dall’art. 1 della Carta dell’Onu, attraverso numerose altre fonti di diritto internazionale prevede che può determinare liberamente il proprio status internazionale un popolo assoggettato a dominazione coloniale o razzista, o il cui territorio è conquistato e occupato con la forza. Nel 1991, però, non si era più in quelle condizioni storiche. La Slovenia dichiarò l’indipendenza nel 1991 e nel maggio 1992 divenne il 176esimo membro delle Nazioni Unite, con la benedizione europea. Erano più complesse le condizioni politiche della Croazia ormai in guerra con l’allora Yugoslavia, ma gli storici ancora discutono quanto la fretta da parte della comunità internazionale, Santa Sede inclusa, nel riconoscerne l’indipendenza abbia influito sul macello dei Balcani che seguì. La dichiarazione di indipendenza del Kosovo nel 2008 fu riconosciuta dai maggiori paesi occidentali, Italia compresa, nel giro di pochi giorni. Eppure, molti anni dopo la guerra della Nato che aveva nei fatti sancito la separazione della ex provincia serba, e caduto il regime di Milosevic, l’indipendenza del Kosovo da uno stato non più dittatoriale né genocida aveva perduto i requisiti di necessità. Mutatis mutandis, il Kosovo nel 2008 era nella stessa condizione di legittimità a dichiararsi indipendente della Catalogna nel 2017. Il principio di autodeterminazione dei popoli è dunque, quantomeno, variabile. Ci sono molti motivi storici e politici per cui lo è, ma sul comune cittadino europeo del Terzo millennio – che vive in un mondo globalizzato, che viaggia e si sente cittadino di se stesso e portatore di diritti individuali o persino percepiti, dentro a un’Unione che spesso invece non percepisce appieno – la cosa può anche fare un effetto strano. Di democrazia limitata, diciamo.
Il punto è che nell’atteggiamento della Spagna e degli altri stati europei c’è una paura evidente ma taciuta. Gideon Rachman, non proprio un estremista, ha scritto la scorsa settimana sul Financial Times che “la crisi della Spagna è la prossima sfida per l’Ue” e che “l’Unione è politicamente e intellettualmente impreparata”. Il progetto europeo, scrive, “è basato sull’idea che la Ue è un ‘safe space’ per i valori liberali. Quando uno stato entra nel club, si dà per scontato che lasci fuori dalla porta i vecchi conflitti, interni o esterni”. Ma che succede se questo non è vero? “La richiesta di indipendenza della Catalogna dimostra che le tradizionali questioni di nazionalità e indipendenza possono ancora sanguinare nella moderna Europa”. Se fosse scalfita la sua autocoscienza di garante della pace e della stabilità, il progetto europeo ne sarebbe minato. L’Europa sta faticosamente uscendo da una pericolosa crisi economica e di credibilità, i populismi nazionalistici sono assai arginati. La via indicata da un Macron è quella di una nuova messa a punto funzionale del motore franco-tedesco. Tutto ciò che minaccia l’integrazione senza strappi e con propensione all’accelerazione è messo a tacere. Rachman notava, e lo fa in questa pagina anche Sabino Cassese, che al recente Consiglio europeo Angela Merkel ha provato a mettere a tema la Catalogna ma gli altri leader hanno volentieri glissato: una Spagna indebolita da una crisi istituzionale interna non è ammissibile. Ma è tutto lungimirante, questo? O non sarebbe appropriato che all’interno della cornice europea gli stati che hanno – non esattamente risolti – problemi di autonomie rivedessero, in vista di una convivenza globale che dei confini nazionali sa sempre meno che farsene, le loro regole d’ingaggio?
Giuliano Ferrara ha scritto che per stabilire che l’identità spagnola è una, basta Picasso. Il vero articolo anti secessione (155) nella Costituzione è lui. Ben scritto e meglio trovato. Ma il suo Picasso andaluso, che poi ha avuto un periodo catalano, uno madrileno, uno parigino e mille altri, oltre al blu e al rosa e al cubista, può dimostrare paradossalmente anche il contrario: Picasso era tutto, tranne che “spagnolo”. La Spagna è un’espressione geografica. Gli indipendentisti catalani sono pazzi e sbagliano. Ma è esistito un sanguinoso indipendentismo basco, ci sono pulsioni andaluse e altre ancora. Quando uscì dal franchismo la Spagna si diede una struttura, e pour cause, che riconosceva le autonomie (ben diciassette). Garantita da un patto (i patti sunt servanda, ma anche “modificanda”), da una Costituzione e da una monarchia.
A proposito di patti. Mariano Rajoy è un politico grigio e di vedute strategiche arcigne, sincero ammiratore di Manuel Fraga Iribarne, il che non lo rende simpaticissimo in Catalogna, pressato da qualche pasticcio e alla guida un governo non solidissimo. Ha ricevuto un’eredità complicata dalla precedente legislatura, nel mezzo della crisi. Lo dipingono come un abile giocatore di scacchi ma sulla vicenda catalana ha saputo soltanto compiere la mossa dell’arrocco. La scelta di abolire manu militari gli accordi per l’autonomia che Barcellona aveva negoziato con il governo Zapatero è stata ideologica e per nulla lungimirante. Sui contenziosi fiscali ha saputo soltanto stringere i cordoni nei confronti di una regione che vale il 20 per cento del pil nazionale. Basterebbe osservare, molti l’hanno fatto, la dimensione socio-economica e la proiezione internazionale della Catalogna per capire che non può non essere la locomotiva spagnola, ma che per farlo deve poter correre. In un quadro che le riconosca, se non tutto quello che vuole, almeno tutto ciò che le serve (e a volte serve anche la psicologia). Molte altre aree europee sono così. Nella Germania che ha assecondato il suo non-essere Reich gli stati federali sono premiati e premiano a loro volta l’economia nazionale. La Francia ha un occhio di riguardo per l’Ile de France, la Greater London era (pre Brexit) un hub dalle uova d’oro di cui tutti riconoscevano le caratteristiche rispetto al resto dell’Inghilterra. Perché Barcellona no? (Sì, ammettiamolo, il sottinteso è: perché Milano e la Lombardia no?). Che il futuro delle reti economiche globali sia più legato alla mobilità delle aree macroregionali che ai confini degli stati non è un mistero per chi studia questi fenomeni, ma di solito i governi centrali non amano metterlo a tema. Infine, il pugno di ferro giudiziario nei giorni del referendum e oggi sta imbarazzando persino Bruxelles. Se c’erano possibilità per onorare malamente i patti, Rajoy le ha scovate tutti. Anziché sciogliere il Parlament, avrebbe fatto meglio a sciogliere le Cortes, indire elezioni e magari un’assemblea costituente che, quarant’anni dopo, riprendesse in mano qualche matassa ingarbugliata. Ma sia detto così per dire, ovviamente. Non può farlo perché la Spagna è debole, nei conti col suo passato e nella visione del suo presente.
La situazione di oggi ci dice anche che non fu una scelta perfetta, la monarchia. In Catalogna (ma non solo lì) cova un sentimento repubblicano profondo e non esattamente ingiustificato. In Italia ebbero la brillante idea di liberarsi dei Savoia, dinastia trasandata. Taroccarono un referendum (facile, no?) e al posto dei Savoia ora abbiamo un settennato. A volte va bene, a volte si becca Scalfaro. Ma almeno si cambia cognome. Madrid ha scelto di tenersi a garanzia dell’unità statale i Borbone, collusi col franchismo e di non brillantissimo passato, almeno in Spagna. Se chiedete a qualcuno il nome di un re di Spagna vi dirà Carlo V, fate una prova. Ma Carlo V era un Asburgo, dinastia immensa e tragica, era nato nelle Fiandre e parlava preferibilmente fiammingo o francese che non castigliano. Alla fine abdicò e si ritirò in un monastero. Ha prodotto altro, dopo, la monarchia di Spagna? Qualcosa per cui debba essere unanimemente sentita dai sudditi come una garanzia nazionale? Filippo VI ha avuto forse per la prima volta in vita sua la chance di dire qualcosa di importante e l’ha fallita malamente, con un discorsetto governativo da monarca conquistatore. La Spagna ha un non piccolissimo problema repubblicano, non solo catalano. Ma non lo può affrontare.
Torniamo alla seggiola di partenza. La secessione e l’uscita dall’Europa sarebbero (state) pragmaticamente nocive e irrealistiche, le aziende fuggono, pure il Barça andrebbe a picco. Ma, a parte la questione di principio – senza la quale però il sentiment della democrazia rischia di andare prima o poi a farsi benedire – perché non dovrebbero decidere in libertà, i catalani? Non possono perché è l’economia, bellezza, perché lo dicono i mercati. E perché il simulacro della democrazia è una statua svuotata. Ma il punto è questo, e tocca vederlo, perché porta il discorso lontano da Barcellona: è il tema della democrazia in occidente, pertiene a essa. E a questo tema pertiene anche la percezione (sì, è un concetto labile e orribile, ma vogliamo negare che conti qualcosa?) che i cittadini si fanno di ciò che intendono per valori e libertà. Che un catalano debba per forza sentirsi spagnolo, o “anche spagnolo”, nel Terzo millennio globalizzato è una scelta individuale (concetto di riferimento: individualismo) e sarebbe un errore non tenere conto del peso di questo individualismo nelle democrazie occidentali: senza dubbio è superiore al peso del populismo. Oppure rimane una belluria, come la “convivencia” evocata dalla Spagna alla base del suo stesso processo di democratizzazione e citata spesso da Rajoy. Non c’è un principio superiore per il quale un cittadino debba scegliere la “convivencia”, a scatola chiusa. Serve un interesse, e pure una percezione dell’interesse. Il contrario non vale nemmeno per l’Italia, paese eponimo della Espressione geografica. Semplicemente non funziona così, non soltanto per la storia e il passato: non funziona, in automatico, per il futuro. Cittadini o comunità che sono giocoforza più legate a una dimensione extra o inter statuale hanno bisogno di sentirsi (s)legate ad altro, più che allo stato nella sua versione centralista e ottocentesca. E’ un individualismo globale, ed è la cifra del nostro tempo.
Provando a sedersi dalla parte del torto, quello che si vede è che non si tratta soltanto di un caso di fanatismo o di follia, di legittimità o di regole. Il caso catalano è un paradigma di alcune questioni importanti che non riguardano soltanto la Spagna. La Spagna è un’espressione geografica, in mezzo a un’Europa che vorrebbe essere espressione di qualcosa. Prima o poi la geografia presenta il conto alla storia. O forse viceversa.
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