Ecco l'asse silenzioso contro il Big Iran
Un dispaccio da Gerusalemme agli ambasciatori: “Appoggiare la causa dell’Arabia Saudita contro gli Houthi filo iraniani”. Mentre eravamo distratti a seguire l’Isis, il generale Suleimani si è mangiato il medio oriente
Roma. Due giorni fa un giornalista israeliano, Barak Ravid di Canale 10, ha pubblicato un dispaccio interessante diramato alle ambasciate dal ministero degli Esteri di Gerusalemme. Il dispaccio comunica agli ambasciatori che è necessario appoggiare la causa dell’Arabia Saudita nel suo confronto per ora freddo con il gruppo Hezbollah in Libano e con il governo dell’Iran – che sponsorizza e finanzia Hezbollah. E dice anche di sottolineare il fatto, con i diplomatici occidentali, che le dimissioni del primo ministro libanese Saad Hariri sabato 4 novembre provano che non è vero che la presenza di Hezbollah “stabilizza il Libano”. Inoltre il dispaccio dice che la lotta dei sauditi contro gli Houthi filoiraniani in Yemen è una causa da approvare e che il lancio di un missile da parte degli Houthi contro la capitale Riad dimostra la pericolosità dell’Iran.
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In teoria qui la svolta che fa notizia dovrebbe essere l’allineamento tra Israele e Arabia Saudita, un paese leader del mondo arabo che sulla carta non ha rapporti diplomatici con Gerusalemme. Ma si tratta di una svolta di cui tutti erano più o meno a conoscenza da tempo: in questo mondo post Stato islamico (post nel senso che il gruppo terroristico non esercita più un controllo militare su qualche territorio e non può minacciare di conquistare nessuna città, non che è svanito per sempre nel nulla) la convergenza tra sauditi (e alcuni altri regni del Golfo, soprattutto Emirati Arabi Uniti) e israeliani era un “open secret”, come direbbero gli americani, e un segreto di Pulcinella, come diremmo noi. Dai primi contatti molti anni fa tra il principe Bandar bin Sultan, scafatissimo ambasciatore saudita a Washington, e l’allora capo del Mossad Meir Dagan, e poi con il successore Tamir Pardo e infine con l’allora primo ministro Ehud Olmert durante un meeting segreto in Giordania (fonte Yossi Melman, un giornalista israeliano specializzato in questioni di sicurezza), si è passati a uno scambio di informazioni fitto tra le agenzie d’intelligence che si occupano delle minacce esterne, e senza che i due governi si parlino dal punto vista formale. La minaccia esterna e comune è l’Iran, che negli ultimi anni le ha imbroccate tutte dal punto di vista della geopolitica soprattutto grazie al generale stratega Qassem Suleimani, capo dell’unità Gerusalemme dei Guardiani della Rivoluzione (è l’unità che si occupa delle campagne all’estero) e architetto dell’espansione iraniana nella regione. In confronto a pochi anni fa oggi Teheran si è allargata molto, instaurando governi vassalli nella regione e aumentando il suo potere di condizionare i vicini, tanto da rendere obsolete e un po’ ingenue le cartine che seguivano con ansia lo Stato islamico (era una traiettoria suicida e ottusa, a differenza di quella di Suleimani). In Siria, l’Iran è il vero vincitore della guerra civile e ha nei confronti del governo del presidente Bashar el Assad una posizione di credito molto vantaggiosa: può chiedere quello che vuole, perché senza il generale la testa di Assad rischiava di rotolare all’inizio del 2013 – e non è una figura retorica. In Libano, l’Iran ha sponsorizzato il gruppo Hezbollah, che è uno stato-dentro-lo-stato con un proprio partito e un proprio esercito. Quando il governo di Beirut nel 2008 tentò di sradicare una rete telefonica parallela che Hezbollah stava costruendo per gestire in autonomia le proprie comunicazioni, il gruppo mandò nelle strade i suoi combattenti e ci furono giorni da guerra civile, fino a quando Beirut non ritirò la sua “pretesa”. Da allora il Libano vive in questo strano stato di sospensione per cui il partito Hezbollah collabora alla vita del governo, ma se qualcosa non gli va bene può mandare migliaia di combattenti armati nelle strade nel giro di mezz’ora. In Iraq, le milizie filoiraniane hanno realizzato l’antico sogno dello Stato islamico, che nel 2014 parlava di “cancellazione delle frontiere tracciate da Sykes e Picot”. Oggi le milizie irachene e filoiraniane attraversano il confine tra Iraq e Siria come se non esistesse, a loro piacimento, per combattere secondo le indicazioni della centrale di comando che non è a Baghdad ma a Teheran. In Yemen, gli Houthi filoiraniani (che non sono più “i ribelli Houthi”: occupano la capitale Sana’a da quasi tre anni, secondo gli standard italiani sono un governo longevo) hanno scatenato una guerra civile nel paese, in cui sono intervenuti anche i sauditi con una campagna aerea dalle conseguenze orrende per i civili. Gli Houthi lanciano missili balistici contro le città saudite, con poca fortuna per ora anche grazie ai sistemi d’intercettazione che Riad ha comprato dagli americani. Sabato un missile è arrivato vicino all’aeroporto internazionale della capitale, i sauditi hanno detto che si tratta di una “dichiarazione di guerra da parte dell’Iran” perché sono gli iraniani a fornire quei missili agli Houthi, l’Iran ha negato. Ma è chiaro che questo andazzo prima o poi sarebbe dovuto sfociare in una crisi aperta, perché tutti questi fatti non fanno parte di un dossier confidenziale: è una situazione sotto gli occhi di tutti. Finora non era molto seguita, forse perché lo Stato islamico ha occupato manu militari le notizie provenienti da quell’area a partire dal 2014, e qui sta il senso delle dimissioni di Hariri e delle parole dei sauditi: “Ci hanno dichiarato guerra”. Vogliono attirare l’attenzione su quello che succede, sul fatto che ormai c’è una saldatura di fatto tra territori dove gli iraniani possono fare ciò che vogliono: oggi in pratica si affacciano su Israele, vedi le alture del Golan, e sull’Arabia Saudita, vedi le montagne al confine nord dello Yemen. Poco da meravigliarsi se questo crea un fronte comune, specialmente se si considera cosa succederebbe se le ricerche atomiche dell’Iran oggi congelate diventassero un giorno un programma militare. Roba da rendere lo standoff coreano uno scenario didattico, per studenti pigri.