Quelli che no, il Regno Unito non è un paese in “suicidio controllato”
Il nuovo direttore dell’edizione britannica di Vogue, Edward Enninful, sbatte la grandezza british in copertina
Quanto è difficile amarsi quando non ci si riconosce più, quando resta il passato – storie lunghissime, amori lunghissimi – come unica garanzia per il futuro. Accade con il Regno Unito, oggi irriconoscibile, perduto nei suoi fallaci giochi politici, incoerente, sospettoso, permaloso, incapace di dar seguito a promesse fatte con leggerezza sciagurata: se sei filobritannico, questo spettacolo ti pare deprimente, questa condanna “a un’irrilevanza introversa”, come ha scritto Steven Erlanger sul New York Times, ti pare insopportabile, pensi che se la sono cercata ma vorresti indietro se non la Cool Britannia un paese credibile. Accade anche con l’America di Donald Trump: se sei filoamericano, questi quattro anni saranno dominati dall’incredulità e dalla volontà coriacea di non ritrovarti mai, qualunque cosa accada, sul carrozzone degli odiatori dell’America. Tanto amore implica uno sforzo continuo di equilibrismo, devi accettare i cenni di declino anche se ti sei sempre battuto per l’antideclinismo, per la resilienza del modello anglosassone, devi accettare che i britannici e gli americani hanno fatto le loro scelte e ora pagassero i conti, la nostalgia non è una dottrina politica.
Almeno noi siamo soltanto osservatori: per i diretti interessati mantenere la fiducia è uno strazio. Gli americani si tormentano con l’antitrumpismo, ma per gli inglesi la crisi è qui, la Brexit è qui, manca poco tempo e non c’è uno straccio di progetto in mano, intanto l’economia si contrae, gli investitori minacciano traslochi colossali, il governo è in crisi di nervi permanente, sta su ma è come se fosse già caduto, perduto. Cosa fai, se tutti attorno parlano male di te, se il Regno Unito è l’ombra di se stesso, se questa terra d’ispirazione globale è diventata sterile, ma non vuoi cedere al disamore? Questa domanda se la stanno ponendo in molti, in Inghilterra.
Alice Thomson sul Times, dopo l’ennesimo articolo apocalittico (“suggerito da Bruxelles”: è sempre quello di Erlanger, ha creato uno scompiglio mostruoso, era in effetti senza appello) sul paese in “suicidio controllato”, si è risvegliata dal “blues da ‘remainer’”, ha scritto, e ha presentato i dati che dimostrano che sì, non è un bel momento, ma restano anche elementi strutturali che fanno ben sperare, siamo il Regno Unito diamine, “ci piace autoflagellarci” ma gli altri non ci facessero la morale, non gli yankee perlomeno. Il nuovo direttore dell’edizione britannica di Vogue, Edward Enninful, ha preso la questione di petto, e molto in grande: il primo numero firmato da lui, quello di dicembre, ha in copertina (foto a sinistra) il volto della modella attivista Adwoa Aboah e un titolo che è anche un manifesto culturale, per il suo Vogue e per il paese intero: “Great Britain”. Zadie Smith scrive un saggio sulla regina e il suo approccio così “nitidamente bassa middle class” (s’intitola “Mrs Windsor”); in una sezione intitolata “Love Letters to Britain” Zayn Malik, ex degli One Direction, scrive che la città di Bradford “è un posto con una lunga storia di sopravvivenza, un battito imprescindibile nel cuore di quel che rende grande il Regno Unito”; Naomi Campbell ricorda assieme al sindaco di Londra Sadiq Khan com’è stato crescere a Streatham. La parola chiave è “talento”. La cita Khan parlando del “segreto di Londra” e la cita il direttore Enninful, ribellandosi ai declinisti, ribellandosi a un governo tanto dinoccolato: “Comunque la pensiate sulla Brexit, c’è sicuramente una cosa su cui possiamo tutti essere d’accordo: we are a talented bunch”, siamo un gruppo di talento, laddove la politica non sa più arrivare, sarà la cultura dell’intraprendenza a salvarci, siamo la Gran Bretagna, non perdiamo la fiducia.
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