I piedi in due boots
Si può stare con Israele e con Assad? Un paio di rischi politici per i partiti conservatori in Italia
Roma. Ora che lo Stato islamico non è più quella giunta militare estremista che controllava un terzo dell’Iraq nell’estate 2014 e che anzi è sull’orlo dell’estinzione come potenza territoriale (non ancora come gruppo terroristico, come non ci si può stancare di dire), per i partiti conservatori in Italia arriva il momento di un test sulla tenuta delle loro posizioni in politica estera. Ci sono larghi settori del centrodestra che sono strenui e naturali difensori di Israele, ma che al contempo simpatizzano con la triade che governa la Siria (Russia-Iran-governo di Bashar el Assad) e che talvolta strizzano l’occhio ai movimenti identitari che stanno ingrossando in tutta Europa. E’ una contraddizione che non creava problemi fino a quando i terroristi sunniti erano una minaccia dal punto di vista militare ed erano in grado di conquistare città e di rovesciare governi arabi. Ma ormai adesso i tagliateste sono inseguiti dai droni in pezzi di deserto periferici, le cose che contano stanno diventando altre e tocca considerare alcuni cambiamenti un po’ più da vicino.
Partiamo dalla questione Siria. La notizia è che Mosca e Washington vedono di buon occhio un allargamento del cessate il fuoco del 7 luglio anche alla Siria meridionale, che confina con Israele. Ma il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha detto che sostanzialmente ignorerà questo clima di accordo: “Israele agirà in Siria, inclusa la Siria meridionale, secondo la nostra comprensione della situazione e secondo le nostre necessità di sicurezza”. Tradotto: non importa se si parla di cessate il fuoco, per noi il conflitto contro le truppe iraniane e i combattenti di Hezbollah che hanno di fatto vinto la guerra civile e che infestano la Siria continua, anzi è soltanto all’inizio. Continueremo come abbiamo fatto finora, quindi a lanciare raid aerei per impedire ai nostri nemici mortali di radicarsi a pochi chilometri dalla linea di confine.
Questa posizione politica e militare non è una novità: a partire dal gennaio del 2013, Israele ha lanciato moltissimi bombardamenti aerei contro le basi dell’esercito siriano – in media uno ogni diciassette giorni per cinque anni – che ospitano iraniani e Hezbollah. Tutte queste operazioni non fanno notizia, inclusa l’uccisione con un drone di un generale iraniano al confine – aveva commesso l’errore di accendere il telefonino – ma ci sono e potrebbero aumentare di intensità. Anzi, che aumentino d’intensità è quasi certo. C’è di più: secondo fonti israeliane, il governo di Gerusalemme vuole una linea di demarcazione dentro la Siria che dovrà segnare il punto massimo fino a cui le milizie filoiraniane possono spingersi. La linea comincerebbe cinque chilometri oltre il fronte dei combattimenti tra gruppi ribelli nel sud della Siria e forze assadiste, che si trova a una distanza variabile tra i cinque e i trenta chilometri dal confine israeliano. In pratica questa è la successione immaginata dagli esperti di sicurezza: confine israeliano, poi zona occupata dai ribelli, poi fronte dei combattimenti, poi cinque chilometri e soltanto allora milizie iraniane. Insomma, gli israeliani considerano il territorio ancora in mano ai gruppi ribelli come una zona cuscinetto e gli iraniani per loro devono arretrare di almeno altri cinque chilometri.
Il calcolo militare è chiaro: i gruppuscoli siriani armati non rappresentano una minaccia esistenziale, gli iraniani – che intendono usare la Siria come una piattaforma per operazioni militari contro Israele – invece sì, hanno una tecnologia e un’organizzazione molto più avanzata. Di questo per ora in Italia si parla pochissimo. Intanto le prime sortite italiane a Damasco degli anni scorsi fatte da esponenti delle frange meno convenzionali della destra, tipo CasaPound e Forza nuova, lasciano progressivamente il posto a visite politiche sempre più rappresentative e strutturate. Ma la contraddizione irrisolta, il fatto che da una parte c’è Israele e dall’altra un governo che talvolta nella sua propaganda divide i suoi nemici in “ebrei interni” (i siriani che non stanno con il governo) e sionisti, non andrà via e anzi acquisterà sempre più importanza.
C’è poi un altro rischio politico da valutare, e qui passiamo alla Polonia, dove domenica migliaia di manifestanti hanno celebrato la Giornata dell’indipendenza in un corteo che era dominato da due gruppuscoli di nazionalisti che chiedono che il paese sia purificato “dalla presenza dei musulmani e degli ebrei”. Quella manifestazione non è che l’episodio più recente del nuovo clima politico in Europa che mescola vecchio e nuovo in modo preoccupante. La campagna in Ungheria contro George Soros, il miliardario accusato di essere l’organizzatore delle ondate migratorie, era soltanto una questione di protezione dei confini o c’entra il mai sopito antisemitismo?
I successi elettorali di Jobbik Ungheria, e di AfD in Germania, del Front national in Francia, di Alba dorata in Grecia e dei partiti nazionalisti nei paesi scandinavi (successi nel senso che le percentuali sono cresciute di molto, non che sono arrivati a governare) raccontano una deriva preoccupante. La presenza di questi partiti non è più marginale e adesso impone una nuova necessità: quella di differenziarsi, di prendere le distanze. I tempi chiedono un plus di attenzione alla linea politica. Si può avere una posizione forte contro i terroristi dello Stato islamico o di al Qaida senza dimenticare che il partito Baath in Siria e gli alleati iraniani coltivano il sogno di una guerra definitiva contro Israele. Si può considerare l’immigrazione come un tema centrale delle campagne elettorali in tutta Europa – lo è senz’altro – senza per questo tralasciare di tenersi a debita distanza dai “purificatori” polacchi.
L'editoriale dell'elefantino