In Siria è sparito l'equilibrio
Due notizie scomparse dalla guerra siriana: la minaccia contro Israele e la vittoria americana contro l’Isis
Roma. Ci sono almeno due storie che non appaiono quasi mai nella conversazione corrente sulla guerra in Siria – dire “guerra in Siria” ormai è un eufemismo, quello che succede investe tutto il medio oriente e oltre – e però sono molto importanti. La prima: la Difesa nazionale di Israele si basa su un’architettura di sicurezza molto studiata e che prende in considerazione in modo attentissimo la geografia della zona. Israele è un paese molto piccolo, 135 chilometri di larghezza al massimo – meno del tratto autostradale che collega Torino e Milano – e questa scarsità di territorio è il motivo degli infiniti negoziati con i palestinesi sulle linee di confine. Se Israele cede troppo terreno, mette in crisi la difesa nazionale perché lo spazio di manovra finisce subito. Non c’è più margine per bloccare le aggressioni via terra, non c’è più il tempo di intercettare gli attacchi via aria, non c’è più il tempo di reazione minimo contro eventuali missili. Questo spazio varia a seconda degli scenari di guerra. Per esempio il gruppo Hamas nella Striscia di Gaza riesce a lanciare verso Israele razzi esplosivi perlopiù di tipo rudimentale, ma se ci fosse un avversario più avanzato dal punto di vista tecnologico allora il problema sarebbe più urgente perché, come abbiamo detto, per un missile o un aereo attraversare lo spazio aereo israeliano è questione di pochi minuti (che è la ragione per la quale talvolta l’aviazione israeliana quando si deve esercitare lo fa verso il Mediterraneo, altrimenti non avrebbe i chilometri necessari a un volo di addestramento). Ora, la guerra civile in Siria ha sfasciato quest’architettura di sicurezza. Dove prima del 2011 c’era un governo siriano che non desiderava un confronto militare diretto con Israele – e anzi era impegnato in colloqui riservati con Gerusalemme, tramite la mediazione turca del presidente Recep Tayyip Erdogan – ora quello schema è saltato per sempre: a partire dal 2012 il governo di Bashar el Assad ha avuto bisogno dell’aiuto militare del gruppo libanese Hezbollah per non soccombere nella guerra civile e partire dal 2013 ha avuto bisogno dell’aiuto militare diretto da parte dell’Iran. Hezbollah e gli iraniani sono riusciti – assieme ai russi – a rovesciare la situazione e a portare Assad in vantaggio definitivo sui suoi oppositori (mentre l’America si occupava dello Stato islamico: ci torniamo fra poco), ma ora non possono essere rimandati a casa, sono in credito enorme e però di fatto hanno un’idea tutta loro della Siria e non è restituirla com’era nel 2011. Considerano Assad alla stregua di un vassallo e considerano la Siria come una piattaforma militare da non abbandonare. Sia Hezbollah sia l’Iran sono nemici acerrimi di Israele e qui entra in gioco il fattore geografico. Prendiamo cos’è successo a giugno, quando lo Stato islamico ha tentato di attaccare con un gruppetto di attentatori il Parlamento a Teheran. Undici giorni dopo le Guardie della rivoluzione hanno lanciato quattro missili balistici modello Zulfiqar (è il nome della spada data a Maometto dall’arcangelo Gabriele) contro le postazioni dello Stato islamico attorno a Deir Ezzor, in Siria. E’ stato un volo di circa 670 chilometri. Prendiamo, per fare un altro esempio, il missile che il 4 novembre gli Houthi hanno sparato dallo Yemen contro l’aeroporto internazionale della capitale saudita Riad. E’ stato un lancio di circa 800 chilometri, due anni fa gli Houthi non ci riuscivano ma ora – secondo il Pentagono – hanno a disposizione anche loro missili fabbricati dall’Iran.
Ora trasliamo queste capacità sul confine tra Israele e Siria: la distanza tra al Quneitra, la città siriana appena oltre le alture del Golan, e Tel Aviv è di 150 chilometri. Gli iraniani sono molto interessati a Quneitra: nel gennaio 2015 un drone israeliano ha ucciso un generale iraniano che era lì a fare un sopralluogo. Ci si aspetta che la Russia dia garanzie forti a Israele che non succederà nulla di grave, ma queste rassicurazioni non sono ancora arrivate. Le richieste non ottengono nulla di concreto. A leggere l’asciutta nota del Cremlino, si vede che martedì dopo la notizia dell’incontro tra Putin e Assad c’è stata una telefonata di mezz’ora tra Putin e il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu sulla presenza degli iraniani in Siria; la telefonata è stata fatta “su iniziativa israeliana”.
A Gerusalemme considerano ogni minaccia potenziale come una minaccia reale e non sono i soli a fare i conti dei chilometri, succede anche tra i paesi arabi del Golfo, e questo fatto – di avere un nemico in comune – spiega l’improvviso clima di idillio e i suoni di violini che arrivano dalla diplomazia arabo-israeliana. La settimana scorsa il capo di stato maggiore di Israele, Gadi Eisenkot, ha dato la prima intervista a un sito saudita per dire che “serve un piano comune”. Due giorni fa un ex ministro della Giustizia saudita ha dato un’intervista al quotidiano israeliano Maariv per dire che “attaccare Israele non è da bravi musulmani”. Domenica uno scrittore kuwaitiano in un’intervista alla tv di stato ha detto che “Israele è uno stato legittimo, non è un occupante”. Non è il trionfo dell’amore, è il trionfo dell’Iran.
In questo mondo rovesciato, c’è un altro fatto trascurato nella conversazione corrente: l’America ha schierato contro lo Stato islamico un apparato misto militare e d’intelligence che nessun altro paese poteva schierare e ha smantellato pezzo per pezzo la struttura dello Stato islamico, ha dato la caccia ai capi, li ha individuati, li ha scovati, li ha uccisi. Senza quell’apparato, non ci sarebbe stata la disfatta dello Stato islamico. Le recenti vittorie del fronte assadista appoggiato dai jet russi nell’est della Siria arrivano soltanto dopo che il meccanismo della Coalizione impegnato nell’operazione Inherent Resolve ha devastato le capitali dello stato islamico in Iraq, Libia e Sirte. E’ successo anche nelle battaglie assadiste: come scordare che la prima volta che l’esercito siriano liberò la città di Palmira fu dopo un accordo di resa con lo Stato islamico grazie a cui i terroristi si tennero le armi pesanti, cannoni e carri armati? Prima della seconda riconquista, di nuovo da parte dell’esercito siriano, furono gli aerei americani a distruggere quei pezzi bellici uno a uno. Russi, Hezbollah e iraniani non avevano come priorità la sconfitta dello Stato islamico, avevano come obiettivo urgente la messa in sicurezza di Assad. Non è scandaloso dirlo, nessuno è tenuto a combattere al di fuori dei propri interessi nazionali, ma basta vedere l’ordine delle battaglie per averne conferma: prima la piana di Hama e la città di Aleppo, dove lo Stato islamico non c’è (da gennaio 2014) e dove c’erano altri gruppi (tra cui Jabhat al Nusra, divisione siriana di al Qaida, che ora ha cambiato nome in Hayat Tahrir al Sham) e dopo, soltanto dopo, c’è stata la spinta verso lo Stato islamico che occupava la Siria orientale. Di questa campagna americana anti-Stato islamico fanno parte eventi molto ampi, come l’alleanza strategica con i curdi delle Unità di difesa (Ypg) per liberare il nord-est della Siria e Raqqa, e fatti particolari che quasi sono passati inosservati, come l’uccisione di capi leggendari del gruppo (Abu Ali al Anbari e Amr al Absi, marzo 2016; Omar al Shishani, luglio 2016; Abu Mohammed al Furqan, leader del settore media, l’uomo dietro alla maggioranza dei video terribili che abbiamo visto, settembre 2016). Non è questione di Amministrazione Obama o di Amministrazione Trump, tanto che l’uomo che ha diretto lo sforzo, il consigliere speciale Brett McGurk, è uno dei pochi che ha tenuto il suo posto nel cambio di presidenti: è che quando si è messo in moto il meccanismo americano l’utopia del Califfato che soggioga il mondo ma senza difese aeree è crollata. Senza dimenticare il lato oscuro dell’operazione militare: un’inchiesta del New York Times ha appena scoperto che il numero di vittime civili uccise nei raid contro lo Stato islamico è 31 volte superiore a quello ufficiale dichiarato dal Pentagono. Per questo, è stato paradossale leggere due giorni fa la lettera che il generale della Guardie rivoluzionarie iraniane, Qassem Suleimani, ha mandato all’ayatollah Khamenei, per celebrare la vittoria finale contro lo Stato islamico. La prima metà della lettera elenca gli orrori dei fanatici e poi spiega: “Tutti questi crimini sono stati pianificati e realizzati dai capi americani, come ha riconosciuto l’ufficiale più alto in grado degli Stati Uniti che al momento è il presidente (è un riferimento a quando in campagna elettorale Donald Trump disse che Hillary Cliton ha creato lo Stato islamico); questo schema è ancora portato avanti con qualche modifica dagli attuali leader americani”.