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Lo stato del Tacchino

Mattia Ferraresi

L’irrilevanza di Trump, il processo al maschio, la dittatura pol. corr. e la crisi della nazione indispensabile. Appunti di Thanksgiving per ricordarsi di cosa non essere grati

Il Thanksgiving è per definizione la festa delle riflessioni e dei ringraziamenti. Il presidente salva un paio di tacchini per poter consegnare tranquillamente tutti gli altri al forno o all’olio bollente, ci si siede davanti allo zio ubriaco che ha votato Trump, si guarda sonnecchiando la partita di football e si pensa intensamente a ciò per cui essere grati. Sarà sbiadita l’iconografia familiare di Norman Rockwell e pure quella massificata di Andy Warhol, ora che le zuppe Campbell’s presentano un crollo degli utili mentre il Tofurky vende che è una meraviglia, ma lo spirito del ringraziamento sopravvive in altre forme. Per il paese è una circostanza a metà fra un bilancio autunnale e una seduta collettiva dall’analista, un momento propizio per fare due conti. Come sta l’America? Come se la passa la “città sulla collina” chiamata ad attirare a sé tutte le nazioni con il suo esempio? Come sta la più potente democrazia del mondo, la bussola della modernità occidentale, il luogo dell’eccezionalismo, la “nazione indispensabile” di Clinton e il paese “con l’anima di una chiesa” di Chesterton, la “last best hope” della terra, l’unico paese al mondo che è anche un sogno? Gli aruspici che, in mancanza di interiora, leggono nel ripieno del tacchino non portano notizie confortanti. La conversazione nazionale è dominata, fino all’asfissia, da una caccia al maschio molestatore che sta assumendo proporzioni epiche e modalità grottesche. Dopo aver organizzato il rogo rituale di Harvey Weinstein, colpevole di aver riproposto su larga scala la logica del casting couch degli anni Trenta, si è passati all’epurazione degli attori, degli uomini di spettacolo, e poi degli intellettuali e dei giornalisti che si erano autoproclamati custodi dello spirito della nazione dopo l’arrivo del supremo villano alla Casa Bianca.

 

Si sono scontrati già in molti contro il muro del pruriginoso, sospesi o licenziati in tronco senza nemmeno potersi difendere

Si sono scontrati già in molti contro il muro del pruriginoso e dell’inappropriato, sospesi o licenziati in tronco senza nemmeno potersi difendere, ché ogni discolpa equivale a un’ulteriore violenza nei confronti delle vittime. Glenn Thrush era il bastonatore con il cappello di paglia delle conferenze stampa del presidente, celebrato nientemeno che dal Saturday Night Live, ma il New York Times lo ha scaricato al primo apparire di reminiscenze di ex colleghe a cui aveva appoggiato una mano sulla coscia in un bar di Washington. Lo scandalo è salito fino ai piani degli intoccabili e ha detronizzato anche Charlie Rose, che è molto più di un giornalista, è un Weinstein del giornalismo televisivo, uno che gioca nello stesso campionato di Walter Cronkite e Katherine Graham, un venerato maestro delle interviste ai potenti della terra che si trova a proprio agio a Kabul come a Davos. E’ scivolato nel cratere pure John Lasseter, il capo creativo della Pixar, macchiato dall’aggravante di aver prodotto animazioni edificanti per i più piccoli. L’ex comico e senatore Al Franken, un liberal radicale di specie minnesotiana e sponsor, come si conviene, di emancipatissime leggi sulla parità, è stato sepolto nel giro di una dichiarazione; l’ex giudice Roy Moore, che al Senato ci spera ancora, si sta dimenando disperatamente per rimanere in sella nella corsa in Alabama, ma anche se ce la farà la prima cosa che lo aspetta a Washington è l’avviso di un’inchiesta della commissione etica istruita dai suoi compagni repubblicani. Il dibattito naturalmente riguarda anche il destino di Trump, quello che si vantava di prendere le donne “by the pussy” senza chiedere il permesso e ha una quindicina di testimoni che dicono di essere state molestate in vari modi. Poiché il processo all’orco è retroattivo, e dunque il paese è di fronte innanzitutto a un riesame del passato, si tratta anche di stabilire se Bill Clinton, uscito indenne dalle lenzuola anche grazie al sostegno del femminismo militante, sia meritevole di una condanna postuma, basata sul nuovo metro di giudizio. Poi occorre stabilire se il predecessore, George H.W. Bush, non fosse ancora peggio, lui che anche in età avanzata conserva il vizietto di toccare il sedere alle ragazze durante le foto, approfittando della sua posizione di vantaggio, la sedia a rotelle.

 

Si capisce che qualcosa sta andando per il verso sbagliato quando Mel Gibson si rallegra della svolta culturale introdotta dal caso Weinstein. Mettete tutto questo sullo sfondo della polarizzazione politica e vedrete lo split screen della nazione restituire due titoli apparsi in contemporanea su reti politicamente opposte. Msnbc: “Trump preferisce un molestatore di bambini a un democratico”. Fox: “I democratici sono in ginocchio per le accuse di molestie sessuali”. In questo febbrile circo che ogni giorno mette nuovi mostri sul palco della vergogna, qualcuno ogni tanto ammette qual è la vera posta in gioco, come Monica Hesse, giornalista del Washington Post che ha dato la sua risposta a un tweet molto popolare sul nesso fra orco e maschio: “Sorpresa! La risposta è che riteniamo, e dobbiamo ritenere, tutti gli uomini dei potenziali mostri di cui avere paura. E’ per questo che passiamo dall’altra parte della strada di notte, e per questo a volte obbediamo quando gli uomini ci dicono ‘sorridi, dolcezza’. Siamo sempre consapevoli che l’alternativa potrebbe essere la morte”.

 

Come sta l'America? Poche notizie rassicuranti, molti paradossi, sia dentro sia fuori i confini nazionali

Gli uffici della macchina politica di Washington che lavorano con più solerzia e costrutto sono quelli delle commissioni etiche della Camera e del Senato, a parimerito con quelli dove il procuratore speciale Robert Mueller e il suo dream team conducono le indagini. Nella valutazione dello stato della prima potenza mondiale non deve sfuggire che le risorse del dipartimento di Giustizia e alcune fra le migliori menti legali del paese sono impegnate nello stabilire se il presidente sia stato eletto in combutta con il Cremlino. Alla Casa Bianca c’è un troll litigioso che attacca briga con chiunque, da Kim Jong-Un al padre del giocatore di basket di Ucla riportato in patria dalla Cina, è sfiduciato dal suo partito, si è già prodotto in una serie di purghe e rimpasti, conclude poco e niente nella politica domestica e si candida come curatore fallimentare dell’influenza americana nel mondo. Dal viaggio in Asia è tornato convinto di avere ammaliato con le sue doti persuasive il leader più freddo e disciplinato del pianeta, Xi Jinping, quello che gli ha soffiato il ruolo di padre della globalizzazione mentre lui prometteva di mettere l’America First. La Cina ha annunciato che nel 2020 raggiungerà gli Stati Uniti nella produzione di intelligenza artificiale, e l’importanza del fatto non sfugge nemmeno a Vladimir Putin: “Chi diventa leader nell’intelligenza artificiale governerà il mondo”. In tutta risposta, Washington taglia il budget per la ricerca tecnologica, accettando di fatto il ruolo di America Second. Nel frattempo a Mosca Bashar el Assad e Putin si abbracciano per festeggiare la fine, se così si può dire, della guerra in Siria, e in quell’abbraccio in favore di obiettivo si legge il fatto che l’America di Trump non toccherà palla nei negoziati del dopoguerra. I leader internazionali più scafati, a partire da Justin Trudeau, hanno capito che il modo migliore per trattare con Trump è ignorare completamente quel che dice e twitta. A porte chiuse il segretario di stato chiama il presidente “moron”, un coglione, il consigliere per la Sicurezza nazionale opta per “idiot” o per il più sofisticato “kindergartner”, bambino dell’asilo.

 

"Se i Padri pellegrini avessero trovato sulle coste l'attuale situazione avrebbero vomitato tutta la prima cena del Ringraziamento"

Non che la politica interna brilli per stabilità. Se il Partito repubblicano è attraversato da una lacerazione fra contestatori e ipertumpiani, quello democratico sembra incapace di produrre una linea politica alternativa e una parvenza di leadership in grado di metterla in pratica. Nel libro-verità di Donna Brazile, ex capo del partito, si legge di un accordo sui finanziamenti blindato da Hillary Clinton per impedire a Bernie Sanders di emergere, segno tangibile di un clima avvelenato che nemmeno l’uscita di scena della famiglia democratica che ha dominato l’ultimo quarto di secolo può risanare. In mancanza di candidati naturali in vista del 2020, si torna a parlare del sempiterno Joe Biden. 

 

Come va l’eterna battaglia per i diritti civili? Il gesto più significativo è il boicottaggio dell’inno nazionale dei giocatori di football

Come va l’eterna battaglia per i diritti civili? Il gesto più significativo di questa stagione è il boicottaggio dell’inno nazionale dei giocatori di football, brevettato da Colin Kaepernick e imitato da centinaia di giocatori, e non è un fatto da poco che nel paese più patriottico del mondo la rabbia sociale s’incanali contro uno dei simboli supremi dell’unità nazionale. Certo, gli inginocchiatori dell’Nfl non sono proprio i Freedom Riders del Mississippi, ma in mancanza di simboli più efficaci Gq ha nominato Kaepernick “cittadino dell’anno”. Prima di questa moda c’è stata la frenesia che ha portato alla rimozione delle effigi del generale Robert Lee e dell’apparato iconografico del sud schiavista, operazione antistorica di dannazione della memoria collettiva che quando è entrata in contatto con la dittatura del politicamente corretto delle università si è trasformata in una surreale crociata per l’eliminazione di qualunque riferimento a figure della storia americana che abbiano posseduto schiavi o ne abbiano legittimato lo status, compresi Thomas Jefferson e Woodrow Wilson. In questa caccia all’oppressore condotta con le categorie odierne, chi si potrà salvare? Il rinnegamento della storia si sposa bene con l’epurazione del termine “negro” da Huckelberry Finn e di tutto ciò che può offendere gli ipersensibili studenti universitari di oggi, talmente delicati che servono orde di “antifa” con spranghe e molotov per difenderli quando qualche conservatore viene disgraziatamente invitato a parlare nel campus. Il racconto dello stato dell’istruzione superiore americana non può omettere le centinaia di disinviti di ospiti che s’oppongono al pensiero mainstream, gli episodi di censura, la costruzione sistematica del pensiero unico che domina quasi interamente tutte le facoltà umanistiche, il sinistro estendersi di identità liquide e indefinibili che però sono tenute a fare solida resistenza quando Trump si permette di giocare con la post-verità. Non ci si rende nemmeno conto che la post-verità è nata proprio lì, nelle lezioni di Foucault e Rorty mandate a memoria dai guerrieri della giustizia sociale che oggi occupano aule e minacciano professori disallineati. Clayton Christensen, professore della business school di Harvard, sostiene che metà delle quattromila università americane finiranno in bancarotta nei prossimi decenni. Non tutto il male viene per nuocere, come si dice. In questo clima di contrapposizione viscerale si genera inevitabilmente il potenziale per la violenza, come l’America che si siede davanti al tacchino fumante sa bene dopo una estate rovente culminata con i fatti di Charlottesville. Non si salva dalla condizione di sfiducia e divisione nemmeno la Silicon Valley, ufficialmente trasformata in sinistro centro di controllo di ogni attività umana e propulsore della disuguaglianza dopo essere stata per decenni l’avamposto di tutto ciò che è buono e innovativo. Ora Mark Zuckerberg è un sospetto complice, guidato dal profitto, dei troll russi che hanno influenzato le elezioni americane, mentre Jeff Bezos è un monopolista che regola mercati e distrugge competitor a suo piacimento. La parola “techlash”, ricalcata su “backlash”, contraccolpo o rinculo, è una delle più rilevanti di questo 2017. Si capisce meglio Larry Page, che fra i cofondatori di Google è il più ideologico, quello con la visione, come si dice, avrebbe voluto tenere “don’t do evil” come motto ad uso interno. Voleva evitare che glielo rinfacciassero quando si sarebbe scoperto che anche Google è capace di fare del male, eccome se è capace. Lo stato dell’America in questo Thanksgiving è sintetizzato da un tweet di Benjamin Wittes, giurista e direttore di Lawfare Blog, cinguettato in vista della conversazione rituale che si consuma oggi attorno a milioni di tavole imbandite: “Quest’anno non sono grato proprio di nulla e non farò nemmeno finta di esserlo. Sono sprezzante. Se i Padri pellegrini avessero trovato sulle nostre coste l’attuale situazione politica avrebbero vomitato tutta la prima cena del Ringraziamento”.

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