Papa Francesco in Birmania e l'incognita di quella parola impronunciabile
L'occidente ha già condannato Aung San Suu Kyi per i rohingya
Yangon. “Devi essere scettico, non cinico”, dice al Foglio Larry Jagan, ex corrispondente della Bbc, che della Birmania conosce i segreti. Si riferisce ai contrastanti commenti sulla visita del Papa in quello che pochi anni fa era un “regno eremita”, al pari della Corea del nord (suo alleato).
Papa Francesco è arrivato a Yangon, ex capitale del Myanmar (nome ufficiale della Birmania), alle 13 e 30 ora locale di ieri. Un’ora dopo la sua auto, una modesta berlina blu, raggiungeva l’arcivescovado, accanto alla cattedrale di St. Mary, tra due ali di folla: migliaia di persone, la maggior parte in costumi di gruppi etnici, il 70 per cento dei cattolici di questo paese a maggioranza buddista (700 mila su 51 milioni).
Secondo i cinici, questo viaggio potrebbe segnare la fine del percorso verso la democrazia iniziato nel 2010 con la liberazione di Aung San Suu Kyi, leader dell’opposizione, e proseguito nel 2015 con la vittoria del suo partito, la National League for Democracy, nelle prime libere elezioni dopo cinquant’anni. Secondo gli scettici, il viaggio è un gioco d’azzardo che potrebbe risultare vincente.
“Non ho paura delle conseguenze, sono solo un po’ inquieto”, confessa un sacerdote che ha accolto nella sua parrocchia centinaia di pellegrini arrivati dopo un viaggio di giorni. La ragione dell’inquietudine è incarnata nei rohingya, musulmani stanziati al confine col Bangladesh, perseguitati da decenni, vittime di un odio che esplode ciclicamente come i tifoni. La storia è ormai nota, e nell’agosto scorso ha avuto risonanza globale. Alle denunce di Al Jazeera sono seguite quelle di ong, Onu, vip, in una narrazione spesso incontrollata che ha dichiarato colpevole Aung San Suu Kyi. Ignorando gli incontri interreligiosi da lei promossi e giudicando da lontano un paese ancor più lontano dell’immaginario.
Il Papa, dunque, è arrivato in una Birmania dove ogni parola pesa quanto un macigno. Soprattutto se è quella parola che per i birmani è impronunciabile: rohingya. Qui sono “bengali”, immigrati dal Bangladesh, oppure – come ha detto al Foglio il vescovo Hsane Hgyi – portati in Birmania dagli inglesi nel secolo scorso come forza lavoro. Se Bergoglio pronuncerà quella parola, metterà in crisi il governo di Aung San Suu Kyi – è stata lei a invitarlo – minando il sostegno popolare che è ancora forte, e rischierebbe di creare ostilità nei confronti dei cristiani. Se non la dirà, invece, potrebbe alimentare l’integralismo islamico che si diffonde nel sud-est asiatico.
Tra cinici e scettici, in questo paese d’ombre, il Papa ha identificato la soluzione in “amore e pace”, slogan del suo viaggio. Come ha detto il Cardinale Bo in un’intervista al Foglio, il Papa è venuto in Birmania “perché è il Papa. Ha un amore speciale per coloro che sono ai margini”. C’è da sperare che nei prossimi giorni, nell’incontro con Aung San Suu Kyi, Papa Francesco possa dissipare qualche ombra. Ieri intanto ha incontrato per quindici minuti il generale Min Aung Hlaing, lui sì leader de facto del paese.
I più cinici fanno rilevare che, dal Myanmar, giovedì il Pontefice passerà in Bangladesh, dove sarà difficile non pronunciare la parola rohingya, anche perché ne incontrerà una delegazione. Secondo una fonte diplomatica interpellata dal Foglio, quindi, per l’occidente la Birmania è ormai condannata. Ecco perché, mentre il Papa si sposterà a Dacca, Aung San Suu Kyi prenderà il volo per Pechino.