El Putin desnudo
Dalla politica estera all’economia della Russia, dalla guerra fredda alla guerra calda. Dietro la baldanza del nuovo zar ci sono molti conti che non tornano. Va forte solo la disinformatia
Avete visto qualcosa sullo scaffale di un qualsiasi supermercato di qualsivoglia paese che porti l’etichetta made in Russia? Una di quelle “cose belle che piacciono al mondo” sulle quali è basato il benessere delle nazioni, come sosteneva lo storico Carlo Maria Cipolla? Non un kalashnikov che si vende su altri mercati né una matrioska che non si trova più nemmeno a Porta Portese o agli Obej Obei. Tanto meno il gas che filtra attraverso i nostri fornelli e si compra con contratti a lungo termine o viene negoziato davanti agli schermi dei computer. No, un televisore, un telefonino, un pullover, una giacca, un gingillo, insomma uno qualsiasi di quegli oggetti che troviamo invece ovunque con su stampato made in China. Sentiamo già l’obiezione che arriva dalla piattaforma Rousseau o da via Bellerio: ma che discorsi, le sanzioni restringono l’accesso ai mercati occidentali. Del resto il 62 per cento delle esportazioni riguarda gli idrocarburi (l’anno scorso hanno fruttato 176 miliardi di dollari sui 286 incassati nell’insieme dall’estero). Giusto. Andiamo a vedere, allora, che cosa circola nei paesi con i quali la Grande Madre Russia commercia liberamente. Dopo gas e petrolio troviamo le armi, poi alluminio, reattori nucleari, trattori, ma anche auto (Vaz, Volkswagen e Renault che hanno stabilimenti di assemblaggio).
E c’è il grano che torna abbondante e vantaggioso anche grazie al riscaldamento climatico, perché i paesi nordici sono diventati fertili come duemila anni fa, prima della cosiddetta piccola glaciazione che nei primi secoli dell’èra cristiana spinse verso sud e verso ovest le popolazioni scandinave, i goti, i sassoni. Insomma, dalla Russia giungono soprattutto materie prime e prodotti dell’industria pesante. E qualcosa che possa stare in vetrina, dentro una boutique, su una mensola? Per questo bisogna spostarsi alla periferia dell’ex impero sovietico, in particolare in Asia centrale. Qui sono molto richiesti i detergenti per capelli, i gelati (ne sono ghiotti anche i cinesi), mentre le corna di renna servono come additivi alimentari. Quasi ovunque, anche in Italia, arriva il coriandolo.
Insomma, ce ne vuole prima di applicare alla Russia il paradigma Cipolla, anche se i tamburini di latta fanno un gran chiasso per dire che il piccolo padre Vladimir (accento sulla prima i) tra i tanti meriti ha anche quello di aver fatto uscire il suo paese dalla recessione che lo tormentava per la terza volta da quando ha preso il potere quasi vent’anni fa. Il tam tam è vasto, crescente, efficace, perché il miglior prodotto confezionato a Mosca e più esportato in tutto il mondo si chiama disinformatia o, secondo la traslitterazione russa, dezinformatsiya. Sì, oggi viene tradotto con fake news, ma è la stessa cosa in versione digitale, è quella guerra condotta con altri mezzi, dagli effetti non meno letali perché distrugge la mente prima ancora che il corpo. Se ne sono serviti anche i regimi liberali, sia chiaro, ma per lo più in situazioni di conflitto aperto (caldo o freddo che sia); dei regimi autoritari invece è l’alfa e l’omega, usata nella vita pubblica e in quella privata.
La disinformazione è diventata un casus belli negli Stati Uniti, dove sembra che i servizi segreti russi abbiano avuto un ruolo addirittura nel far eleggere Donald Trump, in Gran Bretagna, dove hanno giocato per la Brexit, in Germania contro Angela Merkel, in Francia a favore di Marine Le Pen. Insomma tutta la politica occidentale sembra venir plasmata dalle false notizie veicolate più o meno direttamente dal Cremlino. E anche l’Italia, a quanto pare, non è da meno. Ma per quanto bravi siano gli spioni del Cremlino e per quanto allocchi possano essere gli elettori, quella nuvola di sciocchezze che entra nella rete in ogni attimo non avrebbe una portata tanto dirompente se non fosse aperta ovunque una vera e propria “questione russa”.
In un recente convegno (Transatlantic forum for Russia) organizzato a Roma dal Centro studi americano, tutti gli intervenuti, nessuno escluso, a cominciare da Angelino Alfano che parlava come titolare della Farnesina, sono partiti da una premessa: bisogna migliorare i rapporti con Mosca perché non c’è ordine mondiale che tenga senza un suo coinvolgimento pacifico. E molti hanno evocato lo spirito di Pratica di Mare, cioè il vertice della Nato nel 2002 durante il quale i capi di stato e di governo dell’Alleanza atlantica invitarono Putin nella base aerea sulla costa romana del Tirreno per aprire le porte a una collaborazione, foriera di una vera e propria partnership (così sperava Silvio Berlusconi allora capo del governo italiano). Poi, tra sospiri ed evocazioni nostalgiche, sono cominciati i distinguo. Anders Rasmussen è intervenuto non solo da ex segretario della Nato, ma da politico scandinavo che vede la Russia come un potere minaccioso tirando le lezioni della storia. La prima questione da risolvere, quella oggi irrisolvibile, è la crisi ucraina.
“L’Europa orientale – ha spiegato Rasmussen – è stata determinante nel deteriorare le relazioni Nato-Russia. L’annessione illegale della Crimea ha significato il ritorno all’uso della forza militare contro un paese europeo”, rievocando la dottrina sovietica della sovranità limitata. Gli ha fatto eco Kelly Degnan, incaricata d’affari dell’ambasciata americana a Roma: il punto che gli Stati Uniti non sembrano propensi a discutere è proprio “l’integrità territoriale dell’Ucraina” e il fatto che “la Crimea dovrà restare parte del suo territorio”. In Siria, invece, “Russia e Stati Uniti hanno trovato nel Daesh un nemico comune”, ha aggiunto Rasmussen. Eppure, Putin è intervenuto nella crisi “non per combattere il terrorismo ma per proteggere il regime di Assad, con prove evidenti di attacchi indiscriminati su aree urbane che hanno esasperato il problema migratorio in Europa”. Anche qui il solco è profondo. D’altronde, ha sottolineato il presidente dell’Assemblea parlamentare della Nato, Paolo Alli, “l’obiettivo della Russia è restare in Siria per almeno i prossimi 50 anni, al fine di assicurarsi il controllo di una zona strategica di accesso al Mediterraneo e al Mar Nero”. Se in passato è mancata una certa attenzione a tutto questo da parte della Nato, “la nuova Direzione strategica per il sud, il cosiddetto hub di Napoli che andrà a regime alla fine di quest’anno, è un segnale di grande attenzione al fianco meridionale”.
Si sono accorti i partiti politici italiani di questa nuova proiezione mediterranea della Nato? Che cosa ne pensano i russofili? E i filo-arabi? Lo vedremo. “Da est è arrivato un attacco in forma ibrida, subdola e informatica, e non un attacco con le armi per cui ci eravamo preparati”, secondo l’ambasciatore Giampiero Massolo, ora presidente dell’Ispi (Istituto studi sulla politica internazionale) e già direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. “Mentre da sud ci ha colto di sorpresa una minaccia fortemente asimmetrica che ha aggiunto un carattere ibrido alla minaccia russa”. Dunque, Putin sta giocando una partita su scala mondiale e per il momento Stati Uniti ed Europa sono sotto scacco.
Ma siamo sicuri che il nuovo zar come lo ha battezzato l’Economist (senza grande fantasia una volta tanto) stia uscendo vincitore? Non ne è convinto affatto il parlamentare cristiano-democratico tedesco Karl-Georg Wellmann e lo ha detto in modo molto chiaro durante il convegno romano. Secondo l’ex portavoce del Bundestag per la Russia e l’Ucraina, su Putin si stanno abbattendo una serie di veri e propri boomerang politici, militari, economici. Sul fronte internazionale appare un destabilizzatore, mentre su quello interno non è riuscito nel compito più difficile, cioè riformare l’economia. Un sistema che dipende per la maggior parte dei propri introiti dalla esportazione di materie prime e di una in particolare, ha una struttura economica da paese in via di sviluppo. Ciò favorisce la concentrazione del potere, tanto più che i magnati arricchitisi con le privatizzazioni nell’èra Eltsin, gli oligarchi, sono stati trasformati in boiardi nel momento in cui Putin ha portato sotto il diretto controllo del Cremlino i grandi gruppi industriali e bancari.
Forse Wellmann esagera, ma coglie alcuni punti importanti che sfidano il giudizio comune su Putin e ci fa uscire dall’orizzonte ristretto delle fake news. L’uomo forte della Russia ha senza dubbio scosso l’Europa dell’est e sta imponendo la sua presenza politica e militare nel Mediterraneo o per meglio dire intende ripristinare la vecchia posizione dell’Unione sovietica, più o meno sulle stesse aree e talvolta con gli stessi amici: Assad era un alleato e una sponda sicura per la Russia comunista, così come l’Egitto nasseriano e ora quello guidato dal generale Sisi. Non c’è più l’Iraq di Saddam Hussein, tuttavia l’avvicinamento all’Iran mantiene una presenza forte tra il Golfo Persico e il Mar Caspio. Ma ciò non favorisce l’equilibrio delle forze in campo. Non solo. Putin si proclama difensore della cristianità lanciando una crociata ideologica anti-musulmana, poi a Sochi ha riunito Iran e Turchia per una sorta di asse tra due potenze regionali che più islamiche non si può. Si tratta di realpolitik per stabilizzare la Siria e il medio oriente, certamente, in ogni caso tra gli annunci e la realtà effettuale c’è un abisso colmato solo dalla propaganda. Tutto ciò suscita in occidente più inquietudini e sospetti che certezze. E una cosa è chiara: senza o contro l’occidente, Putin non ha speranze di far uscire la Russia da una condizione di insicurezza per condurla verso un vero riscatto fatto di benessere e stabilità.
“Se l’occidente volta la faccia, allora c’è l’oriente; in fondo la Russia è da sempre una potenza euro-asiatica”: ecco uno dei messaggi forti lanciati da Mosca in risposta alle sanzioni. Dunque, via con l’asse cinese a cominciare dagli idrocarburi. Ma anche questo è in parte una manipolazione della disinformatia. E’ vero, Pechino ha estremo bisogno di energia, ne è affamata, e nel 2014 ha firmato un importante accordo trentennale che dovrebbe far entrare gas attraverso la frontiera siberiana. Doveva entrare in funzione l’anno prossimo, adesso Gazprom assicura che girerà la chiavetta nel 2019, più tempo passa più sorgono intoppi di vario generale, tra i quali il prezzo che oggi è molto più basso e ha reso meno conveniente questo tipo di legami a lungo termine. E sul mercato ci sono anche gli Stati Uniti che esportano il loro gas liquefatto in Europa e in Asia. Nel frattempo la Cina ha compiuto alcune scelte nette per dimostrare la sua volontà di tenere a freno l’invadente vicino e muoversi su più fronti. La nuova via della seta passa sotto la Russia, mentre le incursioni in Bielorussia o in Kazakistan sono le prime punture di spillo (gli investimenti cinesi in quei paesi da sempre nella sfera d’influenza russa sono comunque consistenti).
Chi non cede alla malia del judoka dagli occhi di ghiaccio, sostiene che il fianco scoperto di Putin sia la libertà. Ma è l’economia a minare dall’interno il putinismo, come avvenne anche per l’Unione sovietica. Il nuovo zar può sempre vantare che sotto il suo quasi ventennale regno il reddito pro capite è raddoppiato. Calcolato in valuta americana del 1990 era crollato da settemila a quattromila dollari con il collasso dell’Unione sovietica (cioè tra il 1990 e il 2000) ora supera gli ottomila dollari. Tuttavia il suo andamento è legato al prezzo degli idrocarburi tanto che negli anni buoni era balzato fino a 15 mila dollari. Adesso i russi vengono raggiunti e superati dai cinesi. Lontanissimi restano i livelli dell’occidente: l’Europa in media è tre volte tanto, quattro volte gli Stati Uniti o la Norvegia che vive anch’essa soprattutto di esportazioni petrolifere, ma le ha sapute gestire con maggior sagacia.
Nel suo ultimo rapporto pubblicato a luglio, il Fondo monetario internazionale mette in evidenza il miglioramento della congiuntura russa. Dopo due anni di severa recessione è tornato il segno più davanti al prodotto lordo, ma il capo economista della Banca europea per gli investimenti e lo sviluppo, Serghej Guriev, che ha lasciato la Russia nel 2013 dopo “un umiliante interrogatorio”, parla di “transizione dalla recessione alla stagnazione”. La ripresa è trainata dal petrolio grezzo, poiché i prezzi hanno smesso di cadere. La debolezza strutturale, però, emerge ancora una volta dalle esportazioni perché neppure la svalutazione del rublo è riuscita a rilanciarle. Ciò dipende, secondo uno studio specifico del Fmi, sia dai paesi di sbocco delle merci russe, caratterizzati da una domanda fiacca e da redditi bassi, sia dalla qualità dei prodotti. Il che ci riporta a quello che per gli economisti del Fondo monetario è il grande punto debole: l’incapacità di spezzare la sudditanza dagli idrocarburi e di costruire un sistema economico articolato.
Il decennio di Eltsin ha introdotto il mercato senza la cultura e le istituzioni del mercato. Putin ha ripreso in mano i fili tessendo la sua tela dal Cremlino. Il nuovo regime oligarchico ha soffocato la crescita della classe media; i mercanti che all’ombra dei campanili in Europa occidentale sono diventati borghesi, in Russia sono rimasti sostanzialmente trafficanti, anche se scambiano gas, minerali, o magari riciclano denaro sporco. Putin vuole portare un russo sulla luna entro il 2030 (e conta di essere ancora al potere), intanto però sono falliti i due lanci dal nuovo cosmodromo Vostochny. Ciò non toglie nulla alle capacità tecnologiche che fanno parte della tradizione, esistono scienziati di prim’ordine, ma lavorano dentro un sistema sostanzialmente inefficiente. Il presidente si appresta a vincere per mancanza di avversari anche le elezioni del prossimo marzo. A cento anni dalla rivoluzione d’ottobre non c’è nessun rischio che possa fare la fine di Nicola II. Tuttavia “la sfida di trasformare la Russia in uno stato moderno oggi è tanto acuta quanto un secolo fa”, scrive l’Economist. Ecco perché la lezione di Carlo Maria Cipolla è più che mai attuale.