Il cuore della Brexit
La questione nordirlandese non è un cavillo, è la sintesi di quel che significa rifare i confini dell’Ue
Milano. Un accordo con Bruxelles ci sarà entro la settimana prossima, dicono le fonti governative a Londra, in un coro che vuole essere rassicurante dopo che lunedì il previsto “Brexit day” si è trasformato in una conferenza stampa di qualche minuto della premier inglese, Theresa May, e del capo della Commissione europea Jean-Claude Juncker (la May ha parlato 49 secondi). L’obiettivo è arrivare al vertice del 15 dicembre dei capi di stato e di governo europei con una bozza di accordo che consenta a Bruxelles di dichiarare “sufficienti” i progressi sul negoziato Brexit e passare alla fase successiva. Tutti credono che si possa raggiungere l’obiettivo, e questo è già un passo avanti rispetto alle recriminazioni e ai battibecchi che hanno scandito gli ultimi mesi di trattative. Il problema però è che questo passo avanti non si sa dove possa portare, o meglio: riporta all’inizio di tutto, alla natura stessa della Brexit, a quello che davvero significa uscire dall’Unione europea, cioè alla versione “hard”, che è il punto di partenza della May e del suo governo, l’uscita dal mercato unico e dall’Unione doganale. L’essenza della Brexit è tutta qui, nella durezza – ricordate “Brexit means Brexit” che sembrava una scemenza della May e invece era la definizione esatta del divorzio, uscire significa uscire? – e nella ridefinizione dei confini dell’Europa una volta che ha perso il suo membro britannico. E’ tutta qui la Brexit, ma è anche proprio per questa brutale semplicità che il negoziato è tanto complicato.
Come si sa, quel che manca per raggiungere la sufficienza (dei progressi) è la soluzione della questione nordirlandese. I brexitologi da qualche settimana avvertivano: sui soldi si trova un accordo, sui diritti dei cittadini europei anche, ma sull’Irlanda del nord si rischia grosso, perché lì precipitano il chiacchiericcio, lo scontro ideologico, i numeri sparati a caso, le tifoserie. Lì si parla di cose concrete, tangibili: un confine, una dogana, chi è dentro e chi è fuori. E infatti nel momento in cui la May ha aperto alla possibilità – voluta dall’Irlanda e dall’Europa – di concedere uno statuto particolare all’Irlanda del nord per evitare una frontiera sul territorio irlandese (di fatto l’Irlanda del nord resterebbe nel mercato unico e nell’Unione doganale), si è scatenata una rivolta interna al Regno Unito. A capitanarla è stato il partito nordirlandese Dup, che garantisce al governo della May la maggioranza in Parlamento: oggi la leader del Dup, Arlene Foster, diceva che c’è bisogno di “molto lavoro” – così scrive il Telegraph – per accordarsi con la May, e intanto le due hanno avuto una conversazione telefonica. La Foster non vuole che l’Irlanda del nord abbia un trattamento diverso rispetto al resto del Regno, ma questo vuol dire “hard border”, confine secco, frontiera d’Europa, con l’Irlanda. Gli altri leader del Regno, di Scozia e Galles, ma anche il sindaco di Londra si sono subito fatti sentire: se l’Irlanda del nord ha un trattamento speciale, lo vogliamo anche noi, restando dentro al mercato unico e all’Unione doganale. Insomma: l’integrità del Regno è a rischio, molto più di quanto non lo fosse quando a minacciarlo era l’indipendentismo scozzese (il pericolo è stato sventato dal referendum del 2015).
Una terza via però non c’è, dentro o fuori, è questa la brutalità “hard” e la definizione dei confini: o l’Irlanda del nord mantiene le stesse tariffe previste dall’Unione europea e accetta le regole sui prodotti industriali e agricoli, o ci saranno necessariamente controlli doganali. Più semplicemente: se l’Irlanda del nord resta nel mercato unico e nell’Unione doganale, ci deve restare anche il Regno Unito, oppure l’Irlanda accetta il confine con il nord (che tra l’altro è esistito per circa settant’anni, dal 1923 al 1993). Non si tratta di dettagli, perché i rapporti commerciali tra Irlanda e Irlanda del nord sono molto intesi e perché un eventuale accordo riguarderebbe – è stato stimato da uno studio che ha mappato i rapporti tra il nord e il resto dell’Irlanda – 140 aree di scambio che sarebbero condizionate dalla Brexit. Non si tratta nemmeno di una faccenda che riguarda l’isola irlandese: qui c’è tutta la Brexit nella sua versione “hard”, c’è tutta la ridefinizione dell’Unione europea e dei suoi confini, c’è tutta la difficoltà del negoziato, c’è tutta la speranza, sempre più forte, che ci sia un altro referendum, e che la Brexit hard non si faccia più. Che è come dire che “Brexit doesn’t mean Brexit”.