Benvenuta Gerusalemme
Il trasferimento dell’ambasciata americana nella capitale di Israele, decisione del Congresso, è una risposta alla storia e a molti nemici. Processo difficile e da accompagnare. Lo status internazionale per le tre religioni. L’Italia si faccia avanti
Il trasferimento dell’ambasciata americana da Tel Aviv a Gerusalemme, capitale dello stato d’Israele, è una decisione del Congresso degli Stati Uniti votata ventitré anni fa, alla quale i presidenti nel frattempo succedutisi, che hanno sempre promesso di attuarla, hanno regolarmente derogato per ragioni diplomatiche. Queste ragioni sono venute meno e il gesto compiuto sotto l’Amministrazione Trump, simbolicamente potente e dunque pericoloso in sé ma inevitabile, è benvenuto. Se nel mondo e nelle agenzie Onu è di moda il boicottaggio di Gerusalemme, intesa come capitale dello stato ebraico, e dello stesso Israele, ecco la risposta. Se l’Iran si allarga in Siria, sotto protezione russa, ecco la risposta. Se l’Iraq ha una tentazione più che sciita e anticurda, ecco la risposta. Se il Libano periclita sotto la ferula degli Hezbollah para-iraniani, ecco la risposta. Se in Egitto e in Arabia Saudita fanno sul serio, quando dicono di volere una nuova situazione geopolitica dell’area, sotto l’incombente minaccia prenucleare, ecco la risposta e l’incoraggiamento. Se il despota turco tiene il piede in otto scarpe, ecco la risposta. Se l’Unione europea e la Gran Bretagna non sono capaci di una politica mediorientale e di vera pace, ecco la risposta. Se la Lega araba, e dispiace per la Giordania, è divenuta un contenitore di parole e di minacce, ecco la risposta. Se l’Autorità palestinese gioca con Hamas una partita ambigua, ecco la risposta. Se il Vaticano non va oltre un generico irenismo pro palestinese, dopo aver cauzionato la guerra assadiano-putiniana in Siria con preghiere e digiuni, ecco la risposta. Se se se, ecco ecco ecco. Con tutte le contraddizioni e le rischiose conseguenze del caso, che ricadono su un Israele attento, ma non intimidito nonostante le diverse opinioni in merito e le divisioni politiche nella Knesset.
Immediatamente e contestualmente sarebbe ragionevole se il governo di Benjamin Netanyahu prendesse una formale e visibile iniziativa per specificare che lo status internazionale di una città che è metastoricamente ebraica da alcuni millenni, e che poi è diventata il teatro della Passione di Nostro Signore Gesù Cristo e infine il luogo dell’ascesa al cielo del Profeta Maometto, deve essere quello di una città libera in cui è protetta la libertà di culto indiscriminata, una città speciale che è capitale politica di un paese e capitale spirituale di almeno tre religioni abramitiche e delle loro diverse declinazioni e tendenze. E dell’iniziativa dovrebbe fare parte la disponibilità totale e sincera a negoziare ogni aspetto del carattere speciale di Gerusalemme con chiunque sia interessato alla pace dell’anima, in pace e in guerra, sempre e comunque. Non vedo alternative se non la preparazione di una guerra guerreggiata, l’ennesima, e tragica. Chi ci sta ci sta, e assume le garanzie del caso in un prevedibilmente lungo ma fecondo negoziato, e chi non ci sta si assume un tremenda responsabilità.
Che Trump e il suo caro genero Jared Kushner siano in grado ci accompagnare questo processo, e che Netanyahu ne sia convinto e capace, è un altro paio di maniche. Ma c’è sempre il Congresso, che è all’origine della faccenda simbolica e diplomatica. E c’è la nostra responsabilità di italiani, per esempio, e di europei. Perché il presidente Paolo Gentiloni non si assume l’onere della proposta, magari con il conforto del capo dello stato italiano Sergio Mattarella, che ha voce in capitolo in molti sensi? Perché il Parlamento italiano non la fa sua? Sarebbe saggio. Sarebbe un modo di assecondare anche le preoccupazioni di Emmanuel Macron, che devono essere formulate secondo il corso preciso delle circostanze attuali, e non in modo demagogico, il che sarebbe nel suo stile di governo e di simbolismo politico. Tutto il resto, e cioè l’aspettativa superstiziosa di violenze e intifada, sulla quale palesemente scommette il giornalismo pigro della scena europea e americana mainstream, dovrebbe essere messo da canto. E la difesa della sicurezza di Israele, che fa il pari necessario ed eguale con lo sforzo di negoziare il negoziabile sempre, ma di posporre a un riconoscimento effettivo della realtà sionista benedetta trattative inutili dopo i celebri fallimenti del passato, è o dovrebbe essere al primo posto delle preoccupazioni di quanti hanno creduto di poter convivere, in modo spesso complice, con il boicottaggio del grande sogno dell’Ottocento, del Novecento e del XXI secolo.
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