Il fake-azzardo di Trump su Gerusalemme
La scelta del presidente americano è strategia, un modo per sbloccare i colloqui
La decisione di Donald Trump di spostare l’Ambasciata statunitense in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme è solo l’ennesima provocazione del presidente tycoon oppure preconizza un passo avanti nella statica questione israelo-palestinese? Al di là di ogni possibile considerazione, sarebbe innanzitutto doveroso evitare eccessivi allarmismi per il pericolo di una ripresa degli attentati terroristici, paventato da una buona parte della stampa. Vale la pena di rammentare che il riconoscimento della capitale israeliana in Gerusalemme da parte dell’America non è un “capriccio” dell’attuale Amministrazione, ma il frutto di un provvedimento votato dal Congresso – il Jerusalem Embassy Act – in tempi non sospetti, ovvero nel 1995. La decisione fu poi “congelata” perché la soluzione volta a istituire due Stati aveva preso sempre più piede e, fino all’Amministrazione Obama, si è deciso che fosse quella la strada giusta da percorrere. Oggi potrebbe cambiare qualcosa?
L’annuncio del presidente non va né eccessivamente enfatizzato, né sminuito. Spostando la missione diplomatica dalla capitale ufficiale a quella “storica”, Trump non farà altro che tenere fede a una promessa fatta durante la campagna elettorale, e che dunque si inserisce nel suo programma di politica estera. Non va neppure ignorato il tempismo con cui la Casa Bianca ha annunciato di voler passare dalle parole ai fatti: è fin troppo evidente l’intenzione di voler sollevare una cortina di fumo che nasconda le violente polemiche che negli ultimi giorni sono tornate a scatenarsi contro lo staff di Trump per le rivelazioni scottanti fatte da Michael Flynn.
Provando a guardare oltre i meri calcoli politici immediati, si potrebbe invece pensare alle possibili conseguenze di questa mossa, ovvero alla rinnovata attenzione per la questione israelo-palestinese, che da diversi anni ormai sembra in una situazione di sostanziale stallo. Trump non ha mai fatto mistero, sin dall’inizio del suo mandato, di non gradire la soluzione dei “due Stati”, rinnegando in pochi minuti un orientamento che per quindici anni era stato un caposaldo della politica estera statunitense. La soluzione di un solo Stato, in cui ebrei e palestinesi convivano fianco a fianco, è stata diffusamente teorizzata e sarebbe l’opzione preferita dagli arabi di cittadinanza israeliana, che attualmente godono di uno status di cittadinanza inferiore rispetto alla popolazione ebraica, ma non dall’Autorità palestinese, che aveva esplicitamente rigettato l’ipotesi trumpiana. Anche i cittadini ebrei respingono la soluzione per cui entrambi i gruppi avrebbero uguali diritti. Con questa opzione, senza un accordo quasi impossibile da concludere e applicare, sul modello cantonale svizzero o libanese, la demografia interverrebbe a vantaggio degli arabi, molto più numerosi e in grado di diventare maggioranza nel giro di poco tempo.
Ribaltare il paradigma sul quale è stato impostato il processo di pace degli ultimi vent’anni potrebbe dunque essere una mossa azzardata. Che fare allora? Se volessimo guardare alla questione con un approccio più positivo, potremmo considerare la decisione di Trump come il gesto di un mazziere che spariglia le carte, operando una forzatura in una situazione che da troppo tempo non accennava a evolversi, con una politica estera americana tutta accentrata ora nella Casa Bianca. Le reazioni potrebbero essere negative e un aumento della violenza non può essere certamente escluso. Oppure, dopo le scontate reazioni del mondo arabo e musulmano, potrebbe verificarsi la ripresa di un dialogo più costruttivo tra il governo di Tel Aviv e l’Autorità palestinese. Difficile comunque che tale eventualità si possa verificare a breve, poiché servirebbe prima un cambiamento del clima politico in Israele.