Qualche dettaglio sulle reazioni preoccupate alla decisione americana su Gerusalemme
Insorgono i palestinesi, che hanno proclamato tre giorni di “rabbia”, e i leader del mondo. Ma forse il momento scelto da Trump potrebbe essere indovinato
Roma. Nessun leader mondiale ha appoggiato gli Stati Uniti, nessuno stato progetta di spostare la sede della propria ambasciata in Israele. Le reazioni dei leader globali dopo la decisione di Donald Trump rivelano paura e preoccupazione. Martedì sera Emmanuel Macron ha subito telefonato alla Casa Bianca per esprimere i suoi dubbi e le sue preoccupazioni, provando a far leva sul buon rapporto costruito in questi primi mesi di presidenza, Federica Mogherini ha avvertito Trump che la posizione dell’Unione europea resterà per un accordo tra due popoli, due stati con una capitale condivisa, Papa Francesco ha detto di “non poter rimanere in silenzio” e di essere “profondamente preoccupato” per la situazione. Le cancellerie europee ritengono l’azione diplomatica americana isolata e pericolosa e non si fidano di Trump: cosa farà se la situazione degenera? Il presidente è in grado di gestire la portata delle sue prese di posizione? Insomma persino gli amici di Israele e gli alleati degli Stati Uniti temono effetti incontrollati e nocivi per lo stato ebraico.
I palestinesi hanno proclamato tre giorni di “rabbia” contro la decisione, ma anche gli altri stati della regione hanno reagito duramente. L’Iran ha ribadito che “il mondo islamico si opporrà al disegno dei nemici dell’islam”; il presidente turco Recep Tayyip Erdogan è stato uno dei più aggressivi, ha parlato di “linea rossa” varcata dagli americani, ha minacciato di tagliare completamente i rapporti con Israele, ripristinati soltanto un anno fa e ha convocato un summit con i 57 paesi membri dell’Organizzazione della cooperazione islamica; i sauditi, che hanno ottimi rapporti con l’Amministrazione Trump, hanno avvertito che la decisione potrebbe avere serie conseguenze sulla stabilità della regione e che verrà vissuta come “provocatoria” dal mondo arabo. E’ questo il rischio, che la decisione di Trump venga strumentalizzata, dando il via a una serie di reazioni imprevedibili, così come imprevedibili sono gli atteggiamenti del presidente americano.
In tutte le dichiarazioni il ragionamento è il seguente: la decisione americana allontana un possibile accordo di pace. Il problema è che non esiste più un processo di pace visto che negli ultimi anni sono stati interrotti persino i colloqui formali. Israeliani e palestinesi non discutono più di termini per risolvere il conflitto, non c’è nemmeno un calendario di incontri. Gli Stati Uniti pensano – come ha detto Trump – che questo sia il momento giusto per il rilancio del dialogo e si fanno garanti della soluzione a due stati prevista dal negoziato. Gli equilibri in medio oriente sono cambiati, la guerra in Siria ha reso l’Iran influente e temuto nella regione. Teheran esercita un potere sempre più importante in Libano grazie all’alleato Hezbollah e minaccia direttamente il territorio saudita dal vicino Yemen, dove ha intrapreso una guerra per procura sostenendo i ribelli Houthi contro Riad. Nel mondo arabo sunnita la questione palestinese è passata in secondo piano e i legami con Israele sono sempre più stretti.
Il 16 novembre per la prima volta un generale israeliano ha dato un’intervista a un quotidiano saudita, e ha detto che Gerusalemme è pronta a collaborare con Riad in funzione anti iraniana. Da settimane la diplomazia israeliana appoggia la causa saudita in Yemen, ormai senza più segreti. Israele è in continuo contatto anche con l’altro grande stato arabo, l’Egitto.
I simboli hanno un peso anche per il mondo arabo. La Mecca e Medina, le due città sacre per i musulmani, si trovano su territorio saudita; “svendere” Gerusalemme, terza città santa, ad americani e israeliani potrebbe essere ricevuto molto male dall’opinione pubblica araba, e dare argomenti alla propaganda fondamentalista. Certo, se sauditi ed egiziani riescono a contenere la piazza, il tempismo non sarà stato così sbagliato. All’Amministrazione americana resta il compito di gestire le conseguenze di una decisione così rilevante: è sulla sua capacità che restano molte preoccupazioni.