Su Israele un'altra colpa dell'Europa codarda
Eppure questo sarebbe il momento per una formidabile accoppiata politica: sì a Gerusalemme capitale e piano di vero aiuto per una regolamentazione della West Bank
Gli argomenti di Bret Stephens in favore della decisione di Trump, che è l’unico forse a disprezzare più di me, su Gerusalemme capitale sono irrecusabili (New York Times, 8 dicembre).
Uno. La pace in medio oriente non dipende dalla questione israelo-palestinese: basta citare i massacri in Libia, Egitto, Yemen, Iraq e Siria per rendersene conto.
Due. Come dimostrano i realistici rapporti attuali di Israele con Arabia Saudita, Egitto, Bahrein, e Abu Dhabi, malgrado lo stallo delle politiche per i due popoli e due stati, non è quella la questione che può impedire un riavvicinamento tra il mondo arabo e l’entità “sionista”.
Tre. Non è vero che gli Stati Uniti con quella decisione indeboliscono il loro ruolo di fair broker in medio oriente: quel ruolo è fallimentare da molti anni.
Quattro. Il carattere sacro e multilaterale in senso religioso di Gerusalemme dipende dalla libertà di culto assicurata per tutti: nei 19 anni di dominio giordano gli ebrei non potevano pregare al muro del pianto, ecco, non è stato vero l’opposto sotto la dominazione israeliana.
Cinque. Il pericolo di violenze palestinesi, il rischio di un nuovo incendio nei territori. Ma la arab street è sempre stata l’integrazione cinica in carne umana sacrificale delle politiche negazioniste degli stati e delle classi dirigenti corrotte che le promuovevano (infatti, va notato, con la delegittimazione dell’Autorità palestinese, di Hamas eccetera la risposta popolare è stata più di frustrazione che sintomo di una rivolta di massa).
Sei. E’ un regalo senza riscontro a Netanyahu, una rinuncia a un oggetto di scambio per la pace. Non è vero: agli israeliani di ogni tendenza politica piace, ma senza alcun entusiasmo indebito per un fatto compiuto da millenni, il fatto che Gerusalemme, loro capitale politica da settant’anni, sia riconosciuta diplomaticamente dal maggior alleato, per il resto i giochi di pace e guerra si fanno altrove.
Sette. Il riconoscimento della realtà toglie al partito della paura e dell’annientamento, la teocrazia cleptocratica che si agita alle spalle dei palestinesi e li inganna e illude da decenni, la capacità di tenere diplomaticamente e simbolicamente in ostaggio Gerusalemme.
Ce n’è abbastanza per domandarsi a quale titolo gli europei si facciano belli con il volto degli altri. Qui la Francia delude, l’Italia delude, e molto. Si capisce, c’è una logica onusiana in certi comportamenti, e un mercato di scambio complesso, un suk, di cui forse è meglio non parlare, per non vergognarsi – politicamente e non moralisticamente –, ma l’opposizione alla decisione del Congresso americano (1995, due anni dopo il fallimento di Oslo per colpa di Arafat), finalmente ratificata dall’amministrazione Trump, sa di codardia, di conformismo, di mero pregiudizio, un automatismo irriflesso e poco lungimirante. Il presidente Gentiloni e l’Alto rappresentante Mogherini avrebbero dovuto riflettere, prima di mettersi a fare gli attivisti in Consiglio di sicurezza e altrove di un’Unione europea che su Israele le ha sbagliate tutte, colpevolmente, alimentando il vero incendio, che è il tentativo di delegittimarla con varie aperture al boicottaggio e di illudere l’Autorità palestinese con leccornie ad alto valore simbolico passibili di alimentare il suo senso di onnipotenza vittimario. Morti palestinesi, disperazione palestinese, isolamento e frustrazione del popolo: sono elementi di una tragedia che come tale va considerata.
Questo sarebbe il momento per una formidabile accoppiata politica: sì a Gerusalemme capitale e piano multiforme di vero aiuto e incoraggiamento alla prospettiva di una regolamentazione seria e responsabile dell’area tormentata della West Bank, mettendo energia, soldi, capacità di mediazione e iniziativa politica al servizio della pace e del rinnovamento delle classi dirigenti in Palestina. L’Italia, che fu pur sempre il paese dell’Israel Day, il 13 novembre del 2003, e che è stato il paese capace sotto Berlusconi di offrire a Gerusalemme i doni di grazia di una politica lungimirante, avrebbe potuto cercare nella sua identità e storia la via del dubbio, dell’attenuazione dei riflessi condizionati, pavloviani, delle delegazioni europee all’Onu. Ma non è successo. Non si scarta dall’ovvio e dal già visto. La mancanza di fantasia e di autonomia politica dei nostri governi e della loro diplomazia, nonché nella maggioranza della stampa e delle televisioni, è abbacinante.
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