Gerusalemme e Israele. L'occasione che l'Europa non può perdere
Trump ha riacceso il dibattito ma sarebbe un errore concentrarsi solamente sulla questione della capitale. L'Unione europea deve giocare un ruolo più assertivo in medio oriente
Due Stati oppure uno solo? Il dibattito intorno all’individuazione di una soluzione politica per la questione israelo-palestinese è ritornato ad occupare le prime pagine dei giornali dopo anni in cui il processo si era sostanzialmente arenato. La decisione di Donald Trump di spostare l’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme, peraltro già annunciata fin dalla campagna elettorale e che comunque si basa sul Jerusalem Embassy Act votato dal Congresso nel 1995, ha se non altro avuto il pregio di riportare l’attenzione su una vicenda che da troppo tempo sembrava destinata a chiudersi in un vicolo cieco.
La definizione dello status di Gerusalemme è del resto una delle questioni più spinose del conflitto tra Israele e Palestina. Non è un caso se gli accordi di Oslo del 1993, che pur sono rimasti nella storia per aver impresso una decisa marcia in avanti al processo di pace nella regione, decisero di “non decidere” sulla città “santa” e di lasciare la definizione di un accordo a un momento successivo. Il principio di fondo sul quale si vollero impostare le trattative successive, ovvero l’istituzione di due Stati separati, è stato seguito per oltre vent’anni ma il risultato è che oggi i palestinesi ancora non hanno ottenuto o non hanno voluto, come avvenuto dopo l’incontro di Camp David, la piena indipendenza. Di contro Israele, per garantire la propria sicurezza, ha dovuto ricorrere alla costruzione di un muro che circonda la Cisgiordania e la striscia di Gaza. Sono questi gli effetti paradossali di un’impostazione troppo schematica e che al posto della pace ha finito per cristallizzare una situazione di guerra latente.
Nel frattempo, c’è chi sta guardando più in là della città di Gerusalemme e si sta dedicando con profitto ad accrescere la propria presenza in Medio Oriente. Il viaggio di Putin in Turchia, Siria ed Egitto dimostra che, con spregiudicatezza ma anche lucido realismo, è possibile aumentare l’influenza geopolitica di una potenza esterna alla regione. Sarebbe un errore per gli Stati Uniti lasciare ora campo libero a Mosca e concentrarsi solamente sulla questione della capitale: al contrario, il Presidente Trump dovrebbe usare la sua decisione come un “detonatore” in grado di riportare l’attenzione delle grandi potenze su tutta l’area e favorire una partecipazione condivisa in grado di portare ad un nuovo assetto più equilibrato, in grado di riportare pace e stabilità.
Ecco perché in questa situazione l’Europa non può rinunciare a giocare un ruolo di primo piano. Sull’esperienza di quanto già sperimentato con successo con gli Accordi di Helsinki e la Conferenza per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, poi evoluta in un’organizzazione permanente (l’OSCE appunto), i Paesi europei – e ovviamente anche l’Italia con un governo politicamente più forte e che metta a frutto i tradizionali buoni rapporti con Putin – dovrebbero cercare di giocare un ruolo più assertivo in medio oriente, sfruttando la capacità di fare da “ponte” tra Stati Uniti e Russia. Sarebbe l’occasione per dare una forte e duratura garanzia internazionale ai futuri assetti geopolitici della regione. Il pensiero torna allo spirito di Pratica di Mare, dove nel 2002 fu siglato dal Presidente Berlusconi un accordo storico tra NATO e Russia che per alcuni anni consentì di avvicinare Washington e Mosca attorno a una comunanza di vedute. Per cercare di costruire una nuova “casa” mediorientale, sarebbe meglio partire di nuovo dalle fondamenta, e quindi dalla tessitura di una nuova rete di alleanze, piuttosto che dal “tetto”, ovvero la definizione di Gerusalemme capitale che dovrebbe rappresentare invece il suggello definitivo dell’intera questione.