Il segretario di stato dell'Alabama, il repubblicano John Merrill, parla con la stampa dopo le elezioni (foto LaPresse)

In Alabama si consuma il disastro politico di Trump e il suicidio del Gop

La Casa Bianca perde altri pezzi. La grottesca danza per trovare il colpevole della vittoria del democratico Jones. Per il presidente è molto più di un incidente

New York. Subito dopo la rovinosa sconfitta di Roy Moore in Alabama, carica di significati simbolici che si proiettano sullo scenario nazionale, è iniziata l’altrettanto rovinosa guerra per scaricare le colpe e prendere le distanze. Donald Trump, che nella notte aveva twittato con insolita compostezza le congratulazioni al democratico Doug Jones, ha fatto un passo indietro, ricordando che alle primarie lui aveva scelto l’avversario di Moore: “La ragione per cui originariamente avevo sostenuto Luther Strange (e i suoi numeri sono cresciuti enormemente) è che Roy Moore non avrebbe vinto le elezioni generali. Avevo ragione!”. Fox News spiega che la responsabilità è di Mitch McConnell, il capo dei senatori che ha sfiduciato il candidato, il Wall Street Journal dice che è tutta colpa di Steve Bannon (“Bannon is for losers”), l’entourage dell’ex stratega chiama McConnell “il democratico più alto in grado in America” e allo stesso tempo fa sapere che “Moore non è mai stata la sua prima scelta”, e lui avrebbe invece preferito il deputato Mo Brooks.

 

  

Sullo sfondo i repubblicani dissidenti danzano per la vittoria di un democratico: “La decenza ha vinto”, ha scritto il senatore Jeff Flake, mentre il collega Bob Corker parlava di una “grande nottata per l’America”. Il grottesco balletto delle responsabilità repubblicane non può nascondere l’identità del vero perdente di questo snodo elettorale: Trump. Farsi sfuggire un seggio repubblicano incontestato dal 1992 in uno degli stati più conservatori, in un momento in cui la periclitante agenda presidenziale era appesa a due voti di vantaggio al Senato, ora ridotti a uno, è più di un inciampo.

 

Se si osservano nemmeno troppo attentamente le caratteristiche dell’elezione in Alabama si trovano tutti gli elementi della crisi della Casa Bianca. Moore è stato sconfitto innanzitutto per le accuse di molestie avanzate da nove donne, alcune delle quali minorenni all’epoca dei fatti, cosa che nel clima da “MeToo” imperante, dove un ultrademocratico come Al Franken è stato sacrificato per molto meno, ha dato nuovo vigore anche alle accusatrici del presidente. Nel referendum locale su Trump hanno avuto un ruolo fondamentale le donne, in particolare afroamericane, i millennial, le minoranze spesso dimenticate anche dal Partito democratico in queste lande dove i candidati liberal, in condizioni normali, non toccano palla.

 

Ma queste, evidentemente, non sono condizioni normali. La crisi di Trump è scritta nell’impossibilità del partito di reggere anche laddove non servirebbe altro che mantenere l’esistente. La divisione in bande, a loro volta frammentate in litigiosi sottogruppi, ha fatto il resto, e di questi tempi non stupisce sentire un deputato repubblicano che dà di “ubriacone molesto” all’ex stratega del presidente. La sconfitta di Ed Gillespie in Virginia era stata un segnale negativo per il partito che il prossimo anno dovrà difendere la maggioranza congressuale al midterm, ma si trattava di un candidato dell’establishment in uno stato storicamente conteso, non proprio del testimonial del “make America great again” nelle pianure repubblicane del sud.

  
La tegola di Trump è aggravata anche dall’ennesima partenza alla Casa Bianca. Omarosa Manigault, compagna di mille reality e trumpista della primissima ora, è stata licenziata dal suo ruolo di consigliere dopo essere stata cacciata più volte in The Apprentice. Ufficialmente la Casa Bianca dice che l’alleata si è dimessa, ma diverse fonti dicono sia stato l’esito di uno scontro lacerante con il capo di gabinetto, John Kelly, e il rapporto sia finito con un melodramma da tv spazzatura fatto di insulti e guardie che scortano l’imbufalita Omarosa fuori dal perimetro della Casa Bianca. Non è un dato sconvolgente nell’Amministrazione già ampiamente rimaneggiata che vive in uno stato di permanente rimpasto, ma Omarosa apparteneva a una cerchia di lealisti che finora aveva in qualche modo tenuto.

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