In Alabama Trump straperde il più simbolico dei voti
Dopo 20 anni nello stato del sud vince un democratico, Doug Jones. "Sopraffatto" il controverso candidato repubblicano, Roy Moore. E la maggioranza del suo partito al Senato si assottiglia ancora
New York. Il democratico Doug Jones ha sconfitto il repubblicano Roy Moore nelle elezioni per un seggio del Senato in Alabama. Un altro modo per dire la stessa cosa è: un procuratore che ha indagato il Ku Klux Klan e altri gruppi di suprematisti del sud, un pro choice e attivista per i diritti gay, ha battuto un giudice conservatore accusato di aver molestato nove donne, alcune delle quali minorenni, lanciato in politica dall’anima nera dell’universo trumpiano, Steve Bannon, uno che si è presentato al seggio a cavallo, in una roccaforte inespugnabile del conservatorismo del sud, dove da oltre vent’anni non si aveva notizia di un rappresentante democratico. Difficile immaginare uno scontro più carico di forza simbolica.
Le elezioni supplettive per riempire il seggio lasciato da Jeff Sessions, diventato procuratore generale, erano un pesantissimo referendum su Donald Trump, e il presidente ha perso, anzi ha straperso il test. Il margine della vittoria è minimo, attorno a punto e mezzo, ma si tratta di un vantaggio epocale per uno stato del sud più profondo, e la sconfitta per i repubblicani è aggravata dal fatto che così la già ridotta maggioranza repubblicana al Senato si assottiglia ulteriormente. A complicare la serata febbrile ci ha pensato lo stesso Moore, che dopo il discorso della vittoria di Jones e il tweet presidenziale che concede che “una vittoria è una vittoria” ha deciso invece di non ammettere la sconfitta, arrampicandosi sugli specchi della legge che impone di ricontare i voti nel caso il margine fra i candidati sia inferiore allo 0,5 per cento, In questo caso è di tre volte superiore, ma i voti devono essere certificati, e la procedura avverrà secondo il protocollo fra il 26 dicembre e il 3 gennaio.
Insomma, Moore ha preso ancora un po’ di tempo al termine di una campagna fra il rocambolesco e il disperato, dove il partito repubblicano lo ha osteggiato duramente salvo poi sostenerlo in mezzo alla tempesta delle accuse quando si è capito che la vittoria di Jones non era impossibile. L’ultimo chiodo nella bara, come dicono gli americani, lo ha piantato Richard Shelby, l’altro senatore – ovviamente repubblicano – dell’Alabama, che pochi giorni prima delle elezioni ha invitato a votare altri candidati conservatori che si presentavano come indipendenti. I candidati “write in” hanno preso in tutto l’1,7 per cento dei voti, cioè più del margine fra Moore e Jones, ed è molto probabile che siano le schede di elettori repubblicani che non sono riusciti a votare il candidato nemmeno turandosi il naso.
Dopo la sconfitta di Ed Gillespie del mese scorso nelle elezioni per il posto da governatore nella contesa Virginia, un’altra tegola cade sulla testa di Trump, il quale ha commentato il dramma politico con un cinguettio d’intonazione poco trumpiana, cioè senza complotti né vittimismo o iperboli: “Congratulazioni a Doug Jones per la vittoria combattuta. I voti write sono stati un fattore importante, ma una vittoria è una vittoria. Il popolo dell’Alabama è grande, e i repubblicani avranno un’altra possibilità di conquistare questo seggio a breve. Non finisce mai!”. Incredulo e “overwhelmed”, sopraffatto da una nottata oltre ogni immaginazione, Jones ha ringraziato i suoi elettori con una classica citazione di Martin Luther King, riadattata per questo momento in cui la marea politica sta cambiando: “L’arco morale dell’universo è lungo ma tende verso la giustizia. Stasera siamo un po’ più vicini a quella giustizia”.