Gli spagnoli che volevano boicottare la Spagna. Altri danni catalani
La fuga delle aziende, il crollo del turismo e il "boicot"
Roma. Negli ultimi giorni di settembre, poco prima del referendum del primo ottobre sull’indipendenza della Catalogna, sulle bacheche Facebook di migliaia di cittadini spagnoli è apparsa una lista. Recava i nomi di una lunga serie di prodotti originari della Catalogna, e un messaggio: ecco le aziende catalane, specie quelle vicine al “procés”, al processo di indipendenza che di lì a poco sarebbe culminato nel voto illegale. Se siete veri spagnoli, si leggeva sulla lista (o, meglio: sulle liste, visto che ne sono girate infinite versioni) smettete di comprare i prodotti di questa gente che non vuole più stare con noi, che ha smesso di credere nella Spagna, che non vuole sostenere un progetto comune. Boicottiamoli.
La storia del boicottaggio dei prodotti catalani da parte del resto della Spagna è stata poco raccontata fuori dai confini iberici, ma è stata uno dei tanti elementi che ha pesato su Barcellona in questi mesi disastrosi post referendum. Nato come un movimento su internet, mai endorsato da nessun movimento politico, il boicottaggio anti catalano per mesi ha fatto molto male alle aziende locali. Ci sono storie di piccole aziende costrette a nascondere la loro origine per continuare a vendere i prodotti in Spagna e racconti di “war room” di puro panico nelle sedi delle (tante) multinazionali di stanza a Barcellona, che per lunghe settimane a ottobre si sono chieste come combattere il boicottaggio. I casi peggiori sono stati quelli delle aziende che avevano la parola “catalano” nel nome del loro prodotto, come l’acqua in bottiglia Vichy Catalan, che ha subìto un duro colpo. Secondo i media spagnoli, non c’è notizia di aziende fallite o di dipendenti licenziati a causa del boicottaggio, che ha fatto paura ma ha creato danni reali in fondo limitati. Secondo un sondaggio di qualche giorno fa, il 70 per cento degli spagnoli rifiuta il “boicot”, e di recente – dopo queste ultime settimane di calma politica post commissariamento del governo catalano – pare che la questione si sia di molto attenuata.
Ma il problema c’è ancora, e questa settimana se n’è parlato perfino alla Cortes, il Parlamento spagnolo, dove il Partito popolare di Mariano Rajoy ha promosso una mozione non di legge che condannava il boicottaggio dei prodotti catalani, sì, ma descriveva il fenomeno come la pura reazione all’insensatezza indipendentista. La mozione è passata con il voto di Pp, socialisti e Ciudadanos, ma le forze catalane presente in Parlamento hanno fatto un gran baccano.
La prima questione è che in sé il boicottaggio dei prodotti catalani da parte degli altri spagnoli è un’idiozia: i cattivi risultati delle aziende eventualmente danneggiate vanno a ricadere sul pil generale della Spagna, e rivendicare l’unità nazionale boicottando prodotti che, in fondo, sono spagnoli non sembra esattamente un’idea brillante. Ma il “boicot”, così come il calo del turismo dalla Spagna verso la Catalogna, è la versione “di pancia” di quel fenomeno decisamente più meditato che è stato la fuga di oltre 3.000 aziende catalane da Barcellona verso altre città spagnole. Davanti a quel fenomeno (che in questo caso non danneggiava il pil spagnolo e che è stato silenziosamente appoggiato da molte forze unioniste) si disse che la migliore risposta all’indipendentismo l’avevano data proprio i mercati. Anche il “boicot” è stato un fenomeno di mercato. Non furbo, dettato più dalla rabbia che dalla strategia, e per fortuna limitato. Ma indice del fatto che l’indipendentismo catalano ha rischiato (rischia ancora) di spezzare la Spagna, se i consumatori spagnoli hanno pensato, almeno per un momento, di smettere i comprare prodotti spagnoli.
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