Contro Finkielkraut, nuovo paria, scatta la "lapidazione virtuosa"
Perché l'accademico di Francia è stato criticato per la frase sui "non bianchi" assenti al funerale di Hallyday
Roma. Il 10 dicembre 2017 sulla radio Rcj, Alain Finkielkraut afferma: “I piccoli bianchi sono scesi in strada per salutare Johnny. Erano numerosi ed erano soli. I non-souchiens brillavano per la loro assenza”. Così l’“immortale”, membro dell’Accademia di Francia, ha commentato i funerali di Johnny Hallyday, il milione di persone infreddolite che si è ritrovato sugli Champs-Elysées per l’ultimo saluto al rocker più celebre della storia francese. Finkielkraut ha visto in quell’evento la spaccatura profonda tra la Francia bianca e popolare e quella delle periferie. Per farlo, “Finkie” ha usato quel termine sdoganato dalla leader del Partito degli indigeni della Repubblica, Houria Boutedjla, che sui bianchi costruì il gioco di parole (quello sì razzista) consistente nel definire i “Français de souche” (ovvero i francesi bianchi) come “souchiens”, che suona come “sotto-cani”.
Il giornalista Claude Askolovitch, evocando l’identità ebraica che lo accomuna a Finkielkraut, lo ha subito definito razzista, parlando di una “stupidità che sottende una malsana ossessione” identitaria, definendolo “un filosofo che racchiude pregiudizi gregari e avversione etnica”. Sul celebre Bondy Blog è uscito anche un appello contro Finkielkraut: “Sindaci, deputati, consiglieri comunali, dipartimentali e regionali della Seine-Saint-Denis e della regione parigina prendono la penna per denunciare” le esternazioni del celebre intellettuale e filosofo francese. “Dobbiamo ricordare che il signor Finkielkraut ospita uno spettacolo in una radio del servizio pubblico, France Culture, che viene pagato attraverso il nostro canone e che è anche un membro dell’Académie française?”. Laurent Joffrin, direttore del quotidiano Libération, ha dovuto dare ragione a Finkielkraut: “E’ vero che i sobborghi non c’erano” (al funerale del musicista). Sul Figaro, il canadese Mathieu Bock-Coté, astro nascente dell’intellighenzia francese, scrive invece che Finkielkraut è diventato la bestia nera di una certa gauche. “La sola presenza di Alain Finkielkraut nello spazio pubblico oggi sembra essere scandalosa. L’obiettivo è quello di rendere il filosofo un paria, screditarlo moralmente”.
La tempesta su Finkielkraut è interessante perché rivela lo sconvolgimento della vita pubblica, e non solo in Francia, ma in tutto il mondo occidentale. “In primo luogo, vediamo l’importanza del ronzio come fenomeno mediatico”, scrive Mathieu Bock-Coté. “Una piccola frase strappata dal suo contesto e messa su internet può scatenare un’ondata di indignazione. Si è indignati, si urla, si richiede una punizione esemplare contro colui che ha appena trasgredito la visione irenistica della convivenza. Stiamo anche assistendo al ritorno della petizione su larga scala”. Come quella contro Finkielkraut quando entrò all’Accademia francese. “I social media trasformano la lapidazione virtuale in azione virtuosa”.
Già nel 2005, parlando con i giornalisti del quotidiano israeliano Haaretz che lo intervistavano sulla rivolta delle periferie francesi, Finkielkraut vi respingeva la tesi secondo la quale la sommossa nelle banlieue sarebbe stata provocata dalla disoccupazione e dalla discriminazione. “Il problema – sosteneva – è che si tratta in gran parte di neri o di arabi con un’identità musulmana”. Si cercò anche di intentare causa per razzismo e incitamento all’odio contro l’intellettuale francese. “Si tratta di schiacciare simbolicamente il dissidente, provocare la sua morte sociale”, conclude Bock-Coté. “Devi essere progressista o tacere”. Il problema con Alain Finkielkraut è proprio quello: che non vuole saperne di tacere e di lisciare il pelo.
Giulio Meotti