Emmanuel Macron (foto LaPresse)

Napoleon Macron

Francesco Maselli

La giovane età e il narcisismo, la conquista del potere e le ali estreme da domare. In Francia c’è chi vede all’Eliseo l’ombra dell’imperatore

Folgorante. L’ascesa di Emmanuel Macron è stata inaspettata per tutti in Francia tranne, forse, che per Macron stesso. Non ha sorpreso soltanto i suoi avversari politici, ma anche i commentatori e gli storici, spaesati da tanta rapidità nella conquista del potere da parte di un giovanissimo esponente dell’alta amministrazione che mai era stato candidato a un’elezione, ed era un semisconosciuto fino a pochi anni prima. Per gran parte dell’opinione pubblica è presto nata la necessità di trovare un ancoraggio storico, una spiegazione a un fatto straordinario. Da qui la domanda: chi ricorda Emmanuel Macron? La tentazione di cercare paragoni è da sempre molto forte, e nel caso del giovane presidente francese è incoraggiata dall’attitudine e dall’attenzione alla simbologia: ogni sua uscita pubblica è pensata con cura per restaurare la dimensione monarchica del capo dello stato, ogni dichiarazione preparata per iscrivere le azioni del presidente in un disegno storico più ampio. Ed esiste un personaggio che, più di altri, ricorda il giovane presidente francese.

   

E’ quanto crede Jean-Dominique Merchet, giornalista dell’Opinion ed esperto di questioni di sicurezza e difesa, che non si è sottratto all’esercizio e ha intuito che in Macron c’era del Bonaparte, che le similitudini erano troppo evidenti per non vederle. Così ha scritto Macron Bonaparte, un piccolo saggio di 114 pagine edito da Stock e in libreria in Francia dallo scorso ottobre, per dare corpo alla sua suggestione. In primo luogo, Merchet ha descritto le somiglianze anagrafiche e personali, che si notano subito. Bonaparte ha soltanto trent’anni quando il 9 novembre 1799 instaura il Consolato con un colpo di stato; Macron diventa presidente della Repubblica a 39 anni, contro ogni previsione. “Quando Bonaparte inizia la sua carriera, durante l’assedio di Tolone, nell’autunno del 1793, è un perfetto sconosciuto. Sei anni più tardi, è l’uomo più potente del paese. Chi conosce Emmanuel Macron nel 2012, quando è nominato vice segretario generale dell’Eliseo?”, scrive Merchet. Entrambi intellettuali, entrambi sposati con una donna molto più grande di loro: Bonaparte con Joséphine de Beauharnais, di sei anni più anziana e considerata già piuttosto matura per l’epoca (aveva 33 anni), Macron con Brigitte Trogneaux, sua insegnante al liceo, di 24 anni più grande.

 

Il parallelo non si esaurisce in queste coincidenze, ma acquista autorevolezza quando l’autore cerca di desumere il carattere dei due uomini, le loro motivazioni. Il matrimonio, in qualche modo, serve a dar credito alla reputazione costruita intorno alla trasgressione, alla capacità di ottenere quanto vogliono, se lo desiderano, anche se non è “consono”. “Lo spirito di conquista è un tratto fondamentale della loro personalità – spiega Merchet al Foglio in una chiacchierata – la forza di volontà nel conquistare il potere, la storia, se vogliamo l’immortalità. Macron utilizza più volte quest’immagine durante la sua corsa all’Eliseo. A me ha colpito molto, sia perché un vocabolario del genere non è comune nella retorica politica moderna, sia perché la rivendicazione della ‘conquista’ lo colloca nell’esperienza storica bonapartista in modo quasi naturale”. La dimensione personale è fortissima in entrambe le biografie. Così come la rivendicazione di non avere alcun padrino: Macron durante la campagna elettorale ha ripetuto più volte di non essere erede di nessuno per cercare di prendere le distanze da François Hollande, del quale era stato consigliere prima e ministro poi. Immaginiamo un altro politico pronunciare una frase del genere?, si chiede Merchet. “Si pensa subito all’incoronazione dell’imperatore, che sollevò la corona e la pose, da solo e con un gesto plateale, sul proprio capo. Eredi di nulla dunque, o al più, della loro ambizione”.

 

I due uomini hanno una concezione del potere verticale, in Bonaparte più scontata e marcata, visto il periodo storico nel quale ha vissuto, ma molto presente anche in Macron: “Nel processo democratico e nel suo funzionamento c’è un assente: è la figura del re, che credo il popolo francese non abbia voluto vedere morto. Il Terrore ha scavato un vuoto emozionale, immaginario, collettivo: il re non è più lì! Abbiamo cercato di riempire questo vuoto mettendoci altre figure, ma ci siamo riusciti davvero soltanto nel periodo napoleonico e in quello gollista; a parte questi due periodi, la democrazia francese non è riuscita a riempire questo vuoto. Dopo il generale, la normalizzazione della figura presidenziale ha inserito una poltrona vuota nel cuore della vita politica: pretendiamo che il presidente della Repubblica occupi questa funzione, ma chi è eletto non riesce più a farlo. Tutto è fondato su questo malinteso”, spiega al settimanale Le 1, nel 2015, già immaginando chi avrebbe potuto restaurare la dignità monarchica della presidenza della Repubblica. All’epoca l’intervista passò quasi inosservata, Macron era da poco stato nominato ministro dell’Economia, le presidenziali erano lontane e una vittoria della destra post gollista sembrava ineluttabile. Rilette ora, le riflessioni acquistano una valenza completamente diversa e aiutano a comprendere il modo in cui Emmanuel Macron concepisce il potere: “La presidenza presuppone un cerimoniale, una distanza, una verticalità”, ha spiegato appena eletto a una classe del liceo di Limoges-Les Vaseix. Difficile non pensare all’impero napoleonico, e a tutti i simboli che ne derivano.

 

Tutto cambia perché nulla cambi. In un passaggio del libro Merchet utilizza la celebre frase di Giuseppe Tomasi di Lampedusa per fornire un’interpretazione interessante di cosa ha rappresentato Emmanuel Macron per il sistema repubblicano francese. Un sistema sull’orlo del collasso, guidato da uomini incapaci di assicurare la sua sopravvivenza e minacciato da Marine Le Pen, esponente dell’estrema destra a lungo considerata al di fuori della normale dialettica politica, e Jean-Luc Mélenchon, il tribuno dell’estrema sinistra che proponeva un’assemblea costituente per eliminare il presidenzialismo. D’altronde nel 1799 anche il direttorio era minacciato dai due estremi, giacobini da una parte, monarchici dall’altra e cercava disperatamente un uomo in grado di riportare la pace dopo anni di guerre civili, persecuzioni politiche, omicidi. Al centro del panorama politico le élite riescono a trovare un accordo per allontanare la classe politica precedente e sostituirla con un’altra, allora come adesso.

 

“Credo che la frase del Gattopardo ci offra uno dei paralleli più calzanti tra le due esperienze – dice Merchet – il sistema francese trova, in entrambe le occasioni, il modo di salvare se stesso: la classe dirigente va soppiantata affinché quanto le élite hanno ereditato continui. Ecco il perché della retorica al di sopra della parti ‘di destra e, allo stesso tempo, di sinistra’, e la garanzia di stabilità tanto richiesta dalla Francia post-rivoluzionaria così come da quella attuale. Un uomo come Macron è la principale differenza tra la Francia di oggi e il Regno Unito: un sistema che funziona, ma una classe dirigente inadeguata, ferma, anacronistica”. Il macronismo è un movimento centrale, non centrista, aggettivo mai pronunciato dal Macron candidato o dal Macron presidente. Anche in questo l’affinità con il bonapartismo è evidente: “en même temps”, allo stesso tempo, un intercalare utilizzato in maniera ossessiva in quasi tutti i discorsi pubblici del presidente francese, non è così lontano dal modo di agire di Napoleone Bonaparte. “L’imperatore appare come una figura di garanzia perché promette di preservare le conquiste della rivoluzione e, en même temps, ristabilire l’ordine; Macron promette di preservare il carattere socialdemocratico di protezione sociale e, en même temps, di essere europeista e liberale”, nota Merchet.

 

Chiediamo se il paragone non sia troppo facile, o addirittura banale: quale politico non vorrebbe assomigliare all’imperatore? “Bisogna sempre fare attenzione con i paragoni storici – conviene Merchet – ma in questo caso gli elementi per costruirlo esistono, mi sembrava giusto non trascurarli. In più il bonapartismo è soltanto una delle culture politiche fondamentali del nostro paese, da una parte della società profondamente rifiutato, tra l’altro. Personaggi importantissimi come Georges Clemenceau, che ha vinto la Prima guerra mondiale, o Jean Jaurès, sono lontani da una figura come quella di Napoleone Bonaparte e dalla sua eredità politica. Per non parlare di Charles de Gaulle”. Il generale è spesso presente nelle evocazioni di Macron, e in effetti, restando sul terreno del paragone storico, le somiglianze esistono. Il leader di En Marche! è stato capace di dinamitare il bipolarismo destra sinistra, come De Gaulle; detesta i partiti tradizionali, come il generale; cerca di avere un rapporto esclusivo con i francesi, disintermediato, idea alla base dell’elezione diretta del presidente della Repubblica voluta da De Gaulle nel 1962. Merchet, che riconosce alcuni tratti politici di effettiva vicinanza tra i due, ama soffermarsi sulle differenze che li allontanano. E qui il paragone si sposta più sull’uomo che sul politico: “In De Gaulle il sentimento principale è lo spirito di servizio, di resistenza. Nel macronismo e nel bonapartismo è presente, fortissimo, come detto, lo spirito di conquista; il sacrificio è assente. Tanto il gollismo possiede una sua forte dimensione tragica, e incarna il destino personale di un uomo al servizio della sua nazione, quanto il macronismo vuole imporre la storia romantica di un uomo che da solo riesce a raggiungere il potere, En Marche! è la marcia, l’avventura di Emmanuel Macron. Tutto è messo in scena come fosse un romanzo. In questo c’è molto di Napoleone Bonaparte”.

 

Macron non si prende per Napoleone, lo ha anche specificato in varie interviste, ma prende la sua vita come un romanzo, vede se stesso come un personaggio epico. Una visione che il presidente non ha avuto difficoltà a spiegare e motivare, sia durante la campagna elettorale sia nelle rare interviste concesse una volta all’Eliseo. Pochi uomini nella storia hanno coltivato apertamente un narcisismo del genere, Bonaparte tra questi. Al contrario, “Chi immagina il generale De Gaulle fondare un partito con le sue iniziali?” si chiede retoricamente Merchet, forse abituato a smontare accostamenti tra il primo e l’ultimo presidente della Quinta Repubblica. “Esiste un argomento sottovalutato: oggi De Gaulle è una sorta di figura tutelare, è un personaggio estremamente condiviso. Tutti, persino il Front national, si ispirano al percorso politico del generale. Durante la sua presidenza, tuttavia, era molto divisivo, una parte dei suoi avversari ne contestava non l’azione, ma addirittura la legittimità, alcuni provarono ad assassinarlo, la protesta di piazza contro la sua persona fu decisiva per porre termine alla sua carriera politica. Macron non ha ancora conosciuto un’opposizione del genere, da quello che ne sappiamo nemmeno l’imperatore”.

 

Il libro di Merchet non è un’agiografia. Cerca di comprendere il fenomeno del macronismo attraverso un’esperienza fondamentale per la cultura e la politica francese: “Io stesso non mi definisco bonapartista, tantomeno credo sia un modello da seguire. Ho cercato di trattare l’argomento con un certo distacco, facendomi guidare dalla curiosità”. Non manca, a tratti, una certa inquietudine. “Nelle dichiarazioni pubbliche di Macron, ma anche nel suo comportamento nella gestione del potere, si nota una certa brutalità – ci spiega il giornalista – lo scontro molto duro con l’ex capo di stato maggiore delle Forze Armate, quest’estate, e il suo ‘licenziamento’ esemplifica bene il carattere autoritario del nuovo presidente, la volontà di non lasciare spazio a chi ne contesta il modo di agire. Anche in questo assomiglia a Bonaparte: di sicuro non è amato, di certo è rispettato, addirittura temuto. E’ un Don Giovanni della politica, può sedurvi, difficilmente lo amerete.” Il rischio più grande per Macron, conclude Merchet, è la hybris, la superbia che fu fatale a Bonaparte: “Il suo più grande nemico è se stesso”.

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