La riforma fiscale di Trump spiegata dal suo ideologo
Parla Grover Norquist, leader dell'Atr (Americans for Tax Reform). Nel presidente ha visto l’uomo che poteva fare una manovra di stampo reaganiano. E i fatti gli danno ragione
Grover Norquist aveva dodici anni ed era un fan di Janis Joplin quando ebbe l’idea di far giurare i candidati ad impegnarsi a non alzare le tasse. Così si ritrovò a fare campagna elettorale per Richard Nixon. La fece anche nel 1972, ma allora il responsabile dello staff lo prese in antipatia perché aveva i capelli troppo lunghi. Nel 1986 il giuramento, il “taxpayer protection pledge”, da sogno è diventato realtà grazie all’Atr, l’Americans for Tax Reform, l’associazione fondata appena un anno prima e di cui è ancora presidente. “In realtà l’idea era stata di Ronald Reagan”, racconta al Foglio. “Mi chiese di gestirla proprio per far passare il Tax reform act. Abbiamo ottenuto un sistema abbastanza buono, basato su due sole aliquote. Una massima del 28 per cento e l’atra del 15”. Il Taxpayer protection pledge è stato stabilito “proprio per proteggere la riforma fiscale dai possibili tentativi dei democratici di smantellarla”, spiega Norquist. Nonostante facciano discutere alcune sue posizioni contro l’oltranzismo anti islamico e qualcuno insinui addirittura una sua simpatia per i Fratelli Musulmani, è considerato l’ideologo della riforma fiscale voluta da Donald Trump, la prima vera vittoria della sua incerta Amministrazione. E’ anche grazie alla battaglia di Norquist se oggi 46 dei 100 senatori, 210 dei 435 membri della Camera dei rappresentanti e 10 dei 50 governatori in carica hanno sottoscritto il loro impegno a opporsi a ogni nuovo aumento delle tasse.
Al ritratto di Janis Joplin è ancora riservato un posto d’onore nella sede dell’Atr, insieme al busto di Ronald Reagan e ai pupazzetti di South Park, il cartone animato libertario e politicamente scorretto di cui Norquist è un grande estimatore. Oltre a collezionare sacchetti anti vomito di tutte le compagnie aeree, fa il giocoliere per hobby e durante le interviste in tv si esibisce facendo volteggiare i birilli, anche se, secondo l’opinione corrente, la cosa che fa con maggior abilità è dettare l’agenda del Partito repubblicano e influenzare la formulazione del bilancio nazionale senza mai essere stato eletto né aver mai ricoperto una carica pubblica. Che l’ex capellone conservi ancora un’anima hippie lo dimostra la sua partecipazione a varie edizioni del Burning Man prima che fosse cool. Una saga di apparente sessantottismo fuori stagione che per Norquist è invece una grandiosa manifestazione del sogno americano. “Il Burning Man è quel che viene quando nessuno ti dice cosa devi fare”, spiega. “Ognuno è libero di fare esibizioni, i cellulari non funzionano, non esistono soldi, o baratti o doni. E’ la dimostrazione che lo stato non ha un suo posto nella natura”.
Le teorie di Grover Norquist appaiono in scarsa sintonia con quelle Trump. Non ne approva la retorica anti ispanica né il protezionismo: “Le tariffe doganali sono tasse e come tutte le tasse devono essere abbassate”. “Gli Stati Uniti nel corso della storia hanno avuto tanto successo proprio perché sono la più grande zona di libero scambio del mondo. L’esperienza dimostra che i paesi che hanno il reddito più alto sono quelli con le economie più aperte”, dice al Foglio. “Trump ha ragione quando dice che l’economia americana cresce troppo lentamente. In molti accordi commerciali siamo stati troppo generosi senza contropartite e dobbiamo insistere sul fatto che i piani di libero scambio devono proteggere la proprietà intellettuale americana, non è giusto che mentre noi apriamo al Giappone, questo inventi dei regolamenti ad hoc per tenere i nostri prodotti fuori dal mercato”, dice. “Dobbiamo aprirci agli altri mercato ma anche gli altri mercati devono essere aperti, ma il libero commercio porta ricchezza. Insomma, mentre Trump vuole abbandonare il Nafta, Norquist sostiene che dovrebbe farne parte l’intera America Latina: “Un tempo si chiamava Enterprise for Americas, era un progetto importante. E’ deludente che George W. Bush non sia riuscito a portarlo a termine per aver perso tempo a fare il sindaco di Baghdad!”.
Se Trump spara contro la stampa, Norquist fa invece parte del comitato che sceglie la persona dell’anno per il Time e nel 2011 fu lui a scegliere Mohamed Bouazizi, l’ambulante tunisino che dandosi fuoco per protesta contro le vessazioni della polizia aveva dato inizio alle primavere arabe. Ad avvicinarlo a Trump è una certa vena istrionica. Noto battutista, ha partecipato al Washington’s Funniest Celebrity Contest, al cinema ha recitato nella trilogia "Atlas Shrugged”, tratta dal noto best seller della filosofa oggettivista Ayn Rand e ha fatto un cameo nella serie tv Amazon “Alpha House”.
In Trump, Norquist ha visto l’uomo che poteva fare una nuova riforma fiscale di stampo reaganiano, e i fatti gli danno ragione: “Ho combattuto contro tutti i tentativi di alzare le tasse quando i democratici erano al potere e ho appoggiato gli sforzi dei repubblicani per ridurle, fino al 1990 quando Bush senior le ha alzate perdendo due anni dopo la presidenza”. Scherzando dice al Foglio: “Sono i democratici che alzano le tasse: a che serve votare un repubblicano che alza le tasse?”.
Allegro e bastian contrario, Norquist combatte le sue battaglie anche con i libri, la cui cadenza coincide con gli appuntamenti elettorali. “Leave Us Alone: Getting the Government's Hands Off Our Money, Our Guns, Our Lives” è ad esempio del 2008. “Debacle: Obama's War on Jobs and Growth and What We Can Do Now to Regain Our Future” è del 2012. “End the IRS Before It Ends Us: How to Restore a Low Tax, High Growth, Wealthy America” è del 2015. Ma secondo quello che spiega al Foglio, la sua seconda più grande innovazione dopo il “pledge” sono i Wednesday Meeting. “Gli incontri che abbiamo iniziato a fare a Washington D.C. nella primavera del 1993, subito dopo che Clinton era stato eletto. Stavamo combattendo contro l’espansione della spesa sanitaria e abbiamo capito che per riuscirci dovevano rallentare tutta la sua agenda: non solo sulle tasse, ma anche ad esempio sulla politica estera. Abbiamo iniziato con una ventina di persone, appuntamento ogni mercoledì dalle 10 alle 11,30. E abbiamo visto crescere la partecipazione .
Norquist è un mago nel creare coalizioni. “I Wednesday Meeting non hanno una struttura verticale”, spiega con evidente esaltazione per la struttura da lui creata. “Nessuno lavora per nessuno, nessuno prende ordini da nessuno, non esistono risposte sbagliate. Non imponiamo un senso falsato di unanimità per fingere che ci sia un accordo quando non c'è”. Dal 2000 i Meeting hanno iniziato a costituirsi anche al livello di singoli stati e sono stati addirittura esportati. “Ce ne sono già 22. Il primo fu a Tokyo, il più efficiente è quello di Londra, mentre quello di Bruxelles si occupa di cose riguardanti l'Unione Europea. Poi ne abbiamo a Stoccolma, a Copenaghen, a Varsavia, a Madrid, a Caracas, a Santiago del Cile, in Australia, in Canada. Adesso ne sta per partire anche uno a Hong Kong”.
Secondo Norquist abbassare le tasse è la naturale conseguenza dell’aggregazione: “la gente vuole essere lasciata in pace”. Si esalta quando inizia a elencare le lobby curiose che secondo lui stanno cambiando il panorama politico degli Stati Uniti. “La più sorprendente è quella dei 10 milioni di utilizzatori di sigarette elettroniche: i “vapers”. Hanno un’abitudine che fa bene alla salute e all’ambiente, perché libera in aria vapore invece di smog. Ma i democratici vogliono metterli al bando”.
Di origini svedesi, è cresciuto a Boston. Racconta: “Mi sono interessato alla libertà ed ho iniziato come anticomunista”. Nel 1980 se ne andò per il Terzo Mondo a lavorare con quei gruppi armati anti-comunisti che l’amministrazione Reagan aveva deciso di appoggiare per precipitare la crisi del blocco sovietico. Fece 13 viaggi in Africa, soprattutto in Angola. Viaggiava su aerei pieni di taniche di benzina per i guerriglieri che passavano a volo radente sulla boscaglia per non essere intercettati, e una volta uno di questi cadde qualche settimana dopo averlo trasportato. Bruciando viva un bel po’ di gente. Però, spiega al Foglio, “a un certo punto mi sono accorto che se il governo russo era il male anche il nostro creava problemi. Volevo che il nostro governo fosse abbastanza forte da impedire ai russi di distruggerci, ma non tanto da poterci colpire, sostituendo una tirannia con un'altra”. E adesso? “Il nostro prossimo obiettivo è ridurre il costo del governo della metà entro i prossimi 25 anni. Adesso il 35 per cento dell'economia americana va in spesa pubblica e spesa fiscale. Dobbiamo portare il governo federale dal 20 al 10 e quello locale dal 12 al 6”. “Penso che ci possiamo riuscire sia limitando la crescita della spesa, sia facendo sì che sia più veloce della crescita del governo”.