In Catalogna vincono gli indipendentisti, ma l'indipendenza per ora è impossibile
Il “procés” sfruttava clandestinità e sorpresa. Ora non è più possibile. Tutti gli argini al secessionismo
Roma. In Catalogna ha vinto l’indipendentismo, non l’indipendenza. E’ una questione importante di cui tenere conto quando si legge in giro che adesso la crisi secessionista in Catalogna “si riapre”. In realtà il “procés”, come l’hanno chiamato in Spagna – vale a dire quel lungo percorso parzialmente clandestino durato un anno e culminato con il referendum illegale del primo ottobre e la dichiarazione unilaterale di indipendenza del 27 ottobre –, è morto da tempo, non solo per l’applicazione dell’articolo 155 della Costituzione spagnola e il commissariamento del governo locale. Il procés è stato una ricetta quasi impossibile da ripetere, i cui ingredienti oggi sono in gran parte scaduti o irreperibili. Anzitutto, le sue basi ideologiche sono state svuotate di senso. I leader indipendentisti vivevano nella convinzione che la prassi avrebbe legittimato una zona grigia fuori dalla legalità in cui il “derecho a decidir”, il diritto di decidere dei catalani (anzi: di meno della metà della popolazione catalana, come si legge qui a fianco) sarebbe prevalso sulla Costituzione nazionale. Il 155 ha mostrato che lo stato spagnolo, nel bene o nel male, non è disposto a riconoscere alcun diritto extracostituzionale, e convincere i catalani che “intanto facciamo l’indipendenza, poi vedrete che i nostri diritti saranno riconosciuti” adesso diventa molto più difficile.
Soprattutto, l’esecuzione pratica del procés è stata resa possibile da due fattori ormai perduti: la clandestinità e l’elemento sorpresa. Il referendum del 1° ottobre era stato perfetto da questo punto di vista. Da Madrid il governo di Mariano Rajoy aveva continuato a ripetere per mesi che “il voto non si farà perché non ci saranno ‘urnas y papeletas’”, urne e schede elettorali. La Guardia Civil per tutto settembre aveva diffuso tronfia foto di milioni di schede sequestrate e aveva organizzato un piano apparentemente perfetto per chiudere i seggi elettorali con la collaborazione dei Mossos d’Esquadra, la polizia locale catalana. Sappiamo com’è andata: grazie a un’operazione condotta in clandestinità da una rete di attivisti locali, gli indipendentisti hanno protetto le schede e le urne e le hanno recapitate in orario a tutti i seggi. Da Madrid, inoltre, nessuno si era accorto che la dirigenza dei Mossos era collusa con i leader indipendentisti, e questo ha fatto sì che la polizia locale non solo non chiudesse nessun seggio rilevante, ma che in alcuni casi proteggesse le operazioni di voto. Colte di sorpresa, le autorità spagnole hanno reagito con il manganello, e le immagini (pompate certo, ma comunque durissime) dei catalani sanguinanti hanno dato al procés un sostegno internazionale insperato. Un colpo così magistrale riesce solo una volta nella vita, è altamente probabile che le autorità spagnole non si faranno cogliere impreparate due volte di fila, e dunque si può dire che la strada di un nuovo referendum illegale ormai è impossibile da percorrere. E finché ci sarà Mariano Rajoy al potere, anche parlare di referendum concordato sarà una fantasia.
L’altro ingrediente fondamentale della ricetta del procés era la ricerca di legittimazione internazionale – per il semplice fatto che un nuovo stato, anche se (auto)proclamato, non esiste finché gli altri stati non lo riconoscono come tale. I leader catalani si erano preparati. Avevano aperto uffici di rappresentanza in molte capitali europee (Roma compresa; uno dei primi atti dell’applicazione del 155 è stato chiuderli quasi tutti) e cercato sponde giuridiche con lunghi appelli e documenti programmatici inviati a Bruxelles. Ma la comunità internazionale è rimasta compatta dalla parte di Madrid, e anche questo elemento rende la via unilaterale non più percorribile.
Alle difficoltà già citate di riaprire il procés se ne aggiungono altre due legate alle elezioni di giovedì, che rendono molto difficile non solo raggiungere l’indipendenza, ma anche formare un governo di matrice indipendentista. La prima è che otto deputati indipendentisti appena eletti si trovano in questo momento o in prigione o in esilio in Belgio, compresi l’ex presidente Carles Puigdemont (esiliato) e l’ex vicepresidente Oriol Junqueras (incarcerato). Il Tribunale supremo venerdì ha incriminato altre quattro persone per tradimento e sedizione, alcune delle quali elette al Parlament. Gli indipendentisti godono di una maggioranza di appena due seggi, e così il problema diventa: posto che si riesca a ricreare una grande coalizione di centrodestra più centrosinistra più sinistra maoista (JuntsxCat di Puigdemont, Erc di Junqueras e Cup), cosa per niente facile visti i dissidi interni al fronte secessionista, come si fa un governo quando una parte consistente della maggioranza è indisponibile?
La seconda riguarda appunto il fatto che il governo di Carles Puigdemont era un esecutivo di scopo sostenuto da una coalizione chimerica, tutto mirato alla realizzazione del procés. Ora che, l’abbiamo visto, il procés come lo conosciamo è impossibile, riuscirà a riproporsi la stessa coalizione? La Cup, partito di estrema sinistra nazionalista (sinistra e nazionalismo sembrano non andare bene insieme, ma nell’universo indipendentista catalano tutto è possibile) ha già fatto sapere che concederà i suoi quattro, determinanti voti a Puigdemont soltanto se accetterà di “disobbedire al 155 e alla Costituzione… e costruire la Repubblica – vale a dire: se riprenderà la via unilaterale che per ora sembra sbarrata.
Tutto questo senza contare la minaccia ultima, la possibilità che Rajoy applichi ancora una volta l’articolo 155 della Costituzione se il prossimo governo tentasse ancora di ottenere l’indipendenza della Catalogna per vie illegali. Il primo ministro l’ha detto alla vigilia del voto: qualunque governo uscirà dalle urne deve agire nella legalità.
Certo, se fare un governo indipendentista è difficile, quanto meno è matematicamente possibile: la stessa cosa non si può dire per il campo unionista, che non ha i voti per esprimere un esecutivo. A questo punto, è plausibile che inizierà il balletto di sfide, trappole e abboccamenti che abbiamo già visto a ottobre, prima della proclamazione dell’indipendenza. Venerdì Puigdemont ha invitato Rajoy a iniziare un negoziato che “si tenga all’estero” e sia “senza condizioni”. Rajoy, ovviamente, ha detto che lui parla solo con chi ha vinto le elezioni, e cioè con la leader di Ciudadanos Inés Arrimadas, che è arrivata prima ma non ha i voti per fare alcunché.
La Catalogna e i suoi cittadini si trovano di nuovo sbarrata la strada della normalità. I negoziati delle prossime settimane provocheranno altri sconquassi e altra destabilizzazione, forse non solo a Barcellona ma perfino a Madrid. Una sola cosa è certa: il referendum, almeno per ora, non si può rifare.
L'editoriale del direttore