La tragedia dei Tory inglesi, o di quando la brutalità diventa metodo di governo
Il saggio "Fall out" e la Emma di Jane Austen
Milano. Indeboliti e incattiviti. I conservatori britannici, dopo quest’anno scandito dai negoziati sulla Brexit e da una tornata elettorale imprevista e sconvolgente, si ritrovano immersi in quella cattiveria che nell’ultimo decennio avevano cercato di sconfiggere. “Fall out”, il saggio scritto dal political editor del Times, Tim Shipman, è la sintesi esatta – e divertente e allarmante – di questo imbruttimento. “Fall out” compare in tutte le classifiche sui saggi migliori del 2017, Shipman è un reporter attento, spigliato, con un accesso al mondo governativo e conservatore straordinario: il suo resoconto è una mappa del potere britannico che non soltanto spiega i rapporti e unisce i puntini di un anno invero bizzarro, ma che soprattutto racconta cosa succede quando la brutalità diventa un metodo di governo.
In questi giorni, ne stiamo vedendo l’ennesimo esempio: il numero due della premier Theresa May, Damien Green, si è dimesso in seguito a uno scandalo – materiale pornografico ritrovato sul suo computer – che è stato per talmente tante settimane sulla bocca di tutti da far pensare, giusto prima delle dimissioni, che fosse quasi risolto. C’era l’inchiesta, chiunque diceva che probabilmente i capi accusatori erano provabili, ma siccome non accadeva niente, siccome l’attacco a Green non aveva ripercussioni troppo gravi sulla May – che è il bottino più grande, inevitabilmente – era subentrata la noia. Poi sono arrivate le dimissioni, ed è rinata la speranza di assestare un colpo talmente forte alla May da farla cadere (per colpa di quello che sui tabloid è diventato “Pornocchio”). Il golpe. Quel golpe di cui parliamo voraci da mesi, senza accorgerci che la premessa di un golpe è l’esistenza di un sostituto valido e accreditato – che come si sa, nel Partito conservatore, non c’è. L’esito è sotto gli occhi di tutti: un cannibalismo senza quartiere, in cui il pubblico si gode lo spettacolo sanguinolento e il giorno dopo si sveglia con la May ancora a Downing Street.
“Fall out” parte dal punto in cui terminava il saggio precedente di Shipman, “All Out War”, un altro successo, cioè la fine del 2016 – la May al potere con una certa solidità, il Vote Leave trionfante, Jeremy Corbyn rieletto leader del Labour. Entrambi i libri sono pieni di indiscrezioni e di chiacchiere off the record, ma la differenza tra i due è lo specchio di quel che è accaduto nel frattempo: il saggio sul referendum della Brexit e i mesi immediatamente dopo racconta il retroscena di un assestamento del potere; in “Fall out” c’è la brutalità. L’anonimato allora serviva “per sentirsi liberi di essere indiscreti – ha commentato Steven Bush sul NewStatement – mentre ora è un invito a esercitare una crudeltà casuale”. Pettegolezzi e cattiverie si alternano senza tregua, la tragedia conservatrice è descritta con un tono da entomologo, il discontento è potente e deprimente.
Theresa May è vittima o carnefice, lei che per prima denunciò in tempi che sembrano lontanissimi la “nastiness” dei Tory? Shipman cerca il riscatto della premier, alcuni hanno paragonato la May di “Fall Out” alla Emma di Jane Austen, “un’eroina che nessuno amerà tranne me”, come aveva dichiarato l’autrice, che piano piano diventa “charming”. Il fascino di May non si vede, semmai si può provare ogni tanto tenerezza, quando alla sua goffaggine si mischia la cattiveria degli altri, collaboratori, amici, ex amici, nemici, tutti ugualmente dediti a questo progetto di crudeltà. Per May la premiership è ormai una guerra di sopravvivenza, un calcolo continuo, che uccide la creatività, in un momento in cui dal Regno Unito tutti ci aspettiamo dei guizzi, assieme a sussulti di coerenza e concretezza. Shipman ci tiene a far sapere che l’unica regola della May è quella di fare del proprio meglio. Ma con la Brexit che va avanti non sembra sufficiente e con tutte le parolacce, le fonti anonime velenose, le definizioni scurrili par di assistere a una stagione di “The thick of it” in diretta: non come fiction, come un documentario semmai, o più ancora come il reality show meno divertente dell’anno.