No, i soldati italiani in Niger non proteggono l'uranio dei francesi
Trecento militari al confine tra Libia e Niger, il passaggio preferito dai trafficanti che puntano verso la Sicilia
Roma. La notizia che il governo sta spostando una parte dell’impegno militare italiano dall’Iraq al nord del Niger ha provocato alcune critiche. C’è chi dice che in questo modo saremo i piccoli aiutanti dei soldati francesi già presenti nel teatro delle operazioni e chi dice persino che andiamo là “a proteggere l’uranio francese”. In realtà gli italiani vanno ad aggiungersi a un enorme apparato internazionale di sicurezza che è già dispiegato nei paesi del cosiddetto Sahel G5, un accordo politico-militare che unisce cinque paesi africani confinanti che stanno provando assieme a risolvere i problemi che hanno in comune: Mauritania, Niger, Chad, Burkina Faso e Mali. Questo apparato di sicurezza è disposto a ventaglio attorno al sud della Libia, è in lotta contro i trafficanti di schiavi e i gruppi estremisti che infestano quelle zone infischiandosene dei confini ed è formato da molte forze militari che lavorano in modo complementare tra loro.
Ci sono i tredicimila soldati internazionali della missione Minusma delle Nazioni Unite che si occupa dal 2013 di stabilizzare il Mali – la Germania ha mandato per quella missione quasi novecento soldati con aerei e droni, più altri trecentocinquanta impegnati nel sud del Mali in un’altra missione per l’addestramento di soldati maliani decisa dall’Unione europea più altri militari ancora stanziati in Niger. Ci sono i trecento soldati spagnoli in partenza per il Mali, secondo una notizia uscita cinque giorni fa, e gli istruttori canadesi nel sud del Niger. Ci sono i cinquemila soldati locali messi a disposizione quest’anno dai cinque paesi africani del Sahel G5, autorizzati a combattere da un mandato delle Nazioni Unite (persino la Russia che di solito vota contro, dall’Ucraina alla Siria alla Libia, questa volta ha dato il suo voto a favore) e finanziati con cinquanta milioni di euro dall’Unione europea, con sessanta milioni di dollari dal governo americano e con cento dai paesi arabi del Golfo. Ci sono i quasi cinquemila francesi dell’operazione antiterrorismo Barkhane, che operano dal 2014 in tutti e cinque i paesi menzionati (la Gran Bretagna aiuta con i voli aerei dei trasferimenti). Ci sono i mille soldati americani, soprattutto in Niger, più una base di droni che presto comincerà a funzionare a Agadez sempre in Niger (mandati anche loro a proteggere l’uranio francese? Per cortesia).
In breve: i circa 250 soldati italiani (che nei periodi di punta della missione diventeranno 470) in Niger saranno un tassello di una missione militare internazionale molto più vasta che guarda naturalmente alla Francia come supervisore perché in quella regione Parigi ha legami diplomatici molto forti per ragioni storiche. Certo, gli italiani faranno base nel vecchio fortino della Legione straniera nella zona di Madama al confine con il sud della Libia e questo vuol dire operare in una zona impegnativa, ma è anche il ruolo più sensato per l’interessa nazionale dell’Italia perché è da lì che passa il traffico di persone diretto verso la Sicilia – nel mezzo della crisi migratoria più ampia della storia dell’umanità. Proprio per questo a settembre a Roma i ministri della Difesa di Italia e Niger avevano firmato un accordo di cooperazione militare, e ora i soldati italiani potranno addestrare le forze di sicurezza locali senza che il budget della Difesa si alzi rispetto agli anni passati, grazie ai ritorni di reparti da Iraq e Afghanistan. Le miniere di uranio usate dai francesi sono più di settecento chilometri a sud e sono funzionanti dagli anni Settanta. Dire che le truppe italiane vanno adesso a proteggerle ha un sapore bizzarro di irrealtà, è come sostenere che i militari francesi impegnati nell’operazione Chammal in Iraq fossero là per difendere la ditta italiana che lavora per riparare la diga di Mosul.