Trump ha scavalcato le élite democratiche, non i problemi
Il presidente americano non è l’Armageddon temuto dai liberal, ma la sua resta la corsa confusa di un focoso e abile imbroglione
Frank Bruni era in Italia negli anni caldi di Berlusconi, deve avere imparato qualcosa. Ora l’ex corrispondente romano del New York Times è un columnist, opinioni. Ce l’ha su con Nancy Pelosi, guida parlamentare dei democratici, perché ha definito un “Armageddon”, una cosa da fine del mondo, la radicale riforma fiscale appena approvata dal Congresso e promulgata da Donald Trump. A parte altre considerazioni, sostiene Bruni: gli americani che si ritroveranno in tasca qualcosa penseranno che quelle parole sono un’uscita isterica, non una profezia biblica. “La furia non è un strategia”, scrive con disperata riprovazione. E’ arrabbiato anche con quelli che fino a pochi giorni fa prevedevano il licenziamento natalizio di Robert Mueller III, l’inquisitore che scandaglia i rapporti anomali tra il team di Trump e gli uomini di Putin, e che si spingevano a descrivere uno scenario fatto di proteste di massa contro la cacciata dell’angelo sterminatore, repressione guidata dalla Casa Bianca e, secondo social media che vanno per la maggiore, anche “legge marziale”. In effetti a Manhattan può capitare di conversare, durante un party natalizio, con persone intelligenti e informate in dubbio sulla possibilità che Trump lasci la presidenza al tempo elettorale stabilito, e senza provare a fare un botto. Il rovello della truffa, del grave incidente della democrazia Americana, importa per alcuni certe conseguenze, insomma “Armageddon”. Il risultato di questi comportamenti ossessivi, a forza di trattare il presidente come un pupazzo di Putin, conclude Bruni, sarà che Mueller magari troverà qualcosa di molto brutto ma questo brutto verrà giudicato al di sotto delle aspettative ultracomplottarde, una delusione. E alla fine della furia, teme il columnist newyorkese che ha vissuto nell’Italia antiberlusconiana dell’indignazione oltranzista, i repubblicani si potrebbero ritrovare a novembre la maggioranza congressuale, invece di perderla come oggi vorrebbero i sondaggi d’opinione e indicherebbero varie tendenze.
Ci sono poi quelli (Roger Cohen) che la buttano sull’elegia e si domandano con i versi di Langston Hughes cosa succeda a un sogno (americano) rimandato, svanito: si secca come un chicco d’uva sotto il sole, imputridisce, resta lì come un peso, oppure esplode? Formale eleganza per una previsione truce. E ci sono i militanti che provano a essere ottimisti (il Nobel Paul Krugman) e trovano di che sperare proprio nei comportamenti ribellistici, questo “opporre un melodramma al melodramma”, censurati da Bruni. Ce n’è per tutti i gusti tra i liberal cui otto anni di Barak Obama hanno consegnato un anno tondo tondo di Trump, ma quelli che hanno convissuto in Italia con le mattane dei Flores, dei Moretti, delle Guzzanti, dei Borrelli e dei Di Pietro hanno il malinconico vantaggio dell’esperienza.
E gli altri, dico i conservatori di una certa stazza intellettuale morale, quelli in fondo sconfitti dal trumpismo allo stesso titolo delle élite profetiche democratiche, ma che pensano di potere usare la leva dell’istinto per ottenere risultati strategici? Ci sono anche loro, si sono separati dai nevertrumpisti, hanno la copertura di Rupert Murdoch e della macchina informativa e di pensiero del Wall Street Journal, oltre che di una buona accademia. Per esempio un classicista e storico militare e dell’occidente come Victor Davis Hanson, prolifico saggista e farmer nella San Joachim Valley: un tempo neoconservatore, amico di W. e della sua amministrazione, teorico conseguente della Guerra a Saddam dopo l’11 settembre sulla scia di Donald Rumsfeld, ora quest’uomo brillante si rifugia sotto l’ala protettiva del generale McMaster, il capo del National Security Council, e considera un potenziale successo la politica blue water, un predominio d’alto mare dell’America senza ingombranti alleanze multilaterali, definita dalla casta militare di cui il presidente twittarolo dispone, e che in certa misura dispone di lui.
Davis Hanson pensa e scrive, in sostanza, che per fronteggiare Cina, Russia, Iran e Nord Corea servono i muscoli e le flessioni istintuali di Trump, per quanto indisciplinato, più che le alleanze europee, le politiche Nato, per non parlare dell’Onu. E molti altri fanno i sornioni, specie dopo l’approvazione del tax plan, e dicono soddisfatti che sì, Trump sarà pure “stupido”, ma ha avuto maggior successo, a un anno data dall’insediamento, dei maverick che lo hanno preceduto nella linea della follia extraistituzionale, tipi come Jesse Ventura, passato dal wrestling e dalla televisione alla testa del Minnesota, o Arnold Schwarzenegger, il terminator della California.
Certo i problemi non si scavalcano tanto facilmente. Trump boicotta l’Obamacare, ma l’abolizione del mandato ad assicurarsi e della multa conseguente comporta a quanto pare un’estensione notevole della copertura sanitaria federale via Medicaid, con enormi tensioni sul debito e una paradossale welfarizzazione che non era nelle premesse del Grand Old Party. Il piano di riduzione fiscale appare al gigantesco business club e alla classe media, con qualche riserva, una buona cosa o perfino ottima, i consumi vanno fortissimo, la disoccupazione era da sempre una fake news su cui il trumpismo tribunizio ha costruito le sue fortune, ma resta l’idea alla Lewis Carrol di una “corsa confusa”, un teatrino di annunci e fatti che non è certo “Armageddon” ma nemmeno un Eden celestiale, specie per il debito e altre varianti. La sicurezza strategica, poi, sembra per ora il vanto di una casta militare, certo di peso, ma non il potenziale risultato di protezionismi, isolazionismi, esercizi muscolari vari e tuìt all’arma nucleare, per non parlare dell’attivismo di Putin per fronteggiare il quale il riarmo dell’Ucraina non sembra un deterrente decisivo. Tant’è. Ma la cosa che temo vera sta altrove. Quello che fa un Potus conta, ma se chi lo fa appare come un focoso e abile imbroglione, e l’alone diffuso intorno al suo mito martirologico sa di leggenda primitiva, vuol dire che chi fa che cosa e come lo fa risulta altrettanto importante. Alla fine va considerato anche il fatto che un invecchiato Steven Spielberg, con sceneggiatori debolucci, ha appena mandato nelle sale affollate con il suo film sui Pentagon Papers, “The Post”, una storia di libertà di stampa molto convenzionale datata 1971: è il ritratto di una società in cui agiscono, con libri, giornali, tirature, tipografie, scoop, valori e costanti professionali e costituzionali che non esistono più. Il sospetto è appunto che i problemi non si scavalcano, ma le élite che li sapevano governare sì.