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Putin contro se stesso

Anna Zafesova

L’esclusione di Navalny dal voto russo era scontata. Zar Vlad deve vedersela con il proprio monopolio

Milano. Alle elezioni presidenziali del 18 marzo 2018 Vladimir Putin dovrà correre contro se stesso. La candidatura del suo principale avversario, Alexey Navalny, è stata bloccata, con la presidente della commissione elettorale centrale Ella Pamfilova che gli ha fatto la ramanzina per “voler rincretinire i nostri giovani”. Pochi giorni prima, il presidente russo aveva detto che “coloro che sono stati menzionati” (non chiama mai Navalny per nome) non hanno un programma vero, che “la maggioranza del popolo non li vuole, noi non li vogliamo”. Un mezzo lapsus che ha deluso coloro che credevano che l’ala moderata del Cremlino avrebbe ammesso Navalny alla campagna elettorale, per mostrare ai russi e soprattutto all’opinione pubblica internazionale – Washington e Bruxelles hanno già criticato la decisione di eliminare il leader dell’opposizione – che Putin non ha paura di nessuno, e il suo quarto mandato alla guida della Russia è meritato e legittimo. Una soluzione che aveva auspicato anche la stessa Pamfilova, dicendo a Navalny “noi siamo i primi a volere vederla competere, per attestare il suo peso reale”. Il Cremlino ha scelto la linea dura, interpretata da molti come sintomo di insicurezza. Navalny è senz’altro il concorrente più temibile incontrato da Putin in ormai 19 anni al potere: ha una estesa ed efficiente rete di seguaci, è l’unico a portare in piazza migliaia di russi, soprattutto i giovani considerati putiniani, è carismatico, usa magistralmente i nuovi media, ha un immagine di eroe anti-burocrazia e gode di appoggi in occidente. Alle elezioni del sindaco di Mosca ha preso il 27 per cento, un assaggio del suo potenziale, e il suo film-inchiesta sulla corruzione del premier Dmitry Medvedev ha fatto 20 milioni di visualizzazioni in tre mesi.

 

Secondo i parametri di una democrazia occidentale, la vittoria su un candidato del genere ha più valore di quella su concorrenti di facciata. E’ però la stessa logica del sistema russo a renderlo impossibile. Il presidente in carica non partecipa mai ai dibattiti elettorali. Una tradizione politica plurisecolare vuole che il leader sia detentore di un potere assoluto, il classico elettorato putiniano – burocrati, militari, anziani, operai – desidera più uno zar che un primus inter pares. Se accetta di farsi contestare è un debole, e per l’apparato statale sarebbe poi un segnale d’allarme. Il potere in Russia o è monolitico o non è. In questa ottica, l’esclusione di Navalny era scontata. Le prevedibili critiche delle cancellerie finiranno nel cassetto già stracolmo di proteste occidentali.

 
Navalny ha promesso il boicottaggio delle elezioni. Che possa muovere i voti lo si è già visto alle elezioni per la Duma del 2011, dove Russia Unita, definito “partito dei ladri e dei cialtroni”, era scesa al minimo storico. Ma la minaccia per Putin a questo punto è lui stesso. Il suo problema non è vincere, ma vincere con una percentuale schiacciante, per governare fino al 2024, un quarto di secolo. In Russia perfino i governatori regionali si fanno eleggere con il 90-95 per cento. Indiscrezioni dei giornali moscoviti parlano di un obiettivo del 70 per cento dei voti con il 70 per cento dell’affluenza, superiore a tutti gli scrutini precedenti, il cui esito scontato fa passare a molti la voglia di spingersi fino al seggio. Nel 2000 Putin ha vinto con il 53 per cento, nel 2004 con il 72, nel 2012 con “solo” il 64. Dopo, c’è stata l’annessione della Crimea – nell’anniversario della quale si terrà l’Election Day 2018 – e la popolarità del presidente all’86 per cento. Dall’entusiasmo della Crimea però sono trascorsi quattro anni, con recessione, sanzioni, tagli della spesa pubblica e 20 milioni di russi (dati del ministero del Lavoro) sotto la soglia della povertà. Il Putin-2018 non può promettere più del Putin-2012. E 19 anni di protagonismo monopolista rendono il compito più arduo: la ricetta Putin ha sempre funzionato, e per questo replicarla è più difficile. Un leader indiscusso ha bisogno di un plebiscito. E se non riesce a ottenerlo, ora non potrà incolpare il populismo di Navalny.

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