Un'Europa dai nuovi confini
Chi pagherà per tutte le dogane post Brexit? Il caso Rotterdam
Milano. Ora che una prima bozza di accordo tra Bruxelles e Londra è stata trovata e si passa alla fase due del negoziato, il continente europeo inizia a pensare ai suoi nuovi confini, e a come li gestirà. L’uscita del Regno Unito dall’Ue – che prevede l’uscita dal mercato unico e dall’unione doganale – significa una ridefinizione di controlli e dogane: la Brexit alla fine è tutta qui, nei confini dell’Unione europea e negli accordi commerciali che regoleranno i rapporti tra l’isola britannica e il continente. Il Telegraph ieri raccontava che al vertice franco-britannico di gennaio tra il presidente francese, Emmanuel Macron, e la premier inglese, Theresa May, si discuterà appunto di dogane, e soprattutto di chi le paga. I brexiteers non vogliono più saperne dei confini e dei controlli europei e dicono: badateci voi. Ma Macron – così dice il Telegraph, che ha però una fama consolidata di seminatore di zizzania – vuole dire alla May: avete voluto la Brexit, ora ci aiutate a venirne a capo, e contribuite un po’ anche voi agli investimenti che gli europei dovranno fare per ridisegnare le loro frontiere.
In realtà, mentre si aspettano le linee guida generali da Bruxelles, sono in corso negoziati paralleli diretti tra funzionari francesi e funzionari britannici per la gestione del canale della Manica: le aree che si affacciano sul canale temono che le ripercussioni della Brexit ricadano sulle loro economie e così si stanno muovendo autonomamente, creando un gruppo di contatto che da febbraio si incontrerà con regolarità. Se da Parigi arriva un messaggio aggressivo – venite in Francia, businessmen e investitori, si sta molto meglio e c’è maggiore stabilità che nel Regno Unito – il tono di questi incontri è molto più conciliante: vista da vicino, la hard Brexit fa paura. La domanda è però sempre la stessa: chi paga per gestire il traffico sul canale? I francesi dicono che dovranno essere i 27 dell’Ue a dividersi la spesa. Ma il tema non è nemmeno stato affrontato nei negoziati a Bruxelles e si sa che la solidarietà europea sulla gestione delle frontiere non è affatto sviluppata (noi italiani che siamo paese di primo approdo per l’immigrazione lo sappiamo bene).
Il problema non riguarda soltanto la Francia. Già prima di Natale si è parlato dei lavori preparatori dell’autorità portuale di Rotterdam, in Olanda, che gestisce il più grande porto di tutta l’Unione europea, circa 460 mila tonnellate di merce ogni anno, e punto di redistribuzione per il continente e per l’isola britannica, che dista poco più di 200 chilometri. Ieri il Financial Times ha dedicato una bella analisi a Rotterdam (e alla sua superiorità tecnologica rispetto ai porti inglesi, ai quali conviene che molte merci arrivino in Olanda e poi vengano trasportate sull’isola) in cui si dice un’altra verità sulla Brexit: “Lasciare l’Ue non è soltanto negoziati e legislazioni, è anche implementazione e infrastrutture”. Secondo l’Ufficio nazionale delle statistiche inglese, almeno la metà dei 40 miliardi di dollari di esportazioni dall’Olanda al Regno Unito viene da paesi terzi, e questo traffico dovrà essere gestito dai porti inglesi – a meno che non si voglia sottostare alla procedura dei controlli di due frontiere, quella europea e quella inglese, che è naturalmente più lunga, e per le forniture “just in time” impraticabile. Dal punto di vista del consumatore, c’è soltanto una hard Brexit, neppure il periodo transitorio di due anni che mantiene lo status quo è sufficiente per preparasi all’uscita dal mercato unico e dall’unione doganale. E gli inglesi finora non hanno mostrato grandi doti di preparazione su molti dossier. Ma al pessimismo degli addetti ai lavori si contrappone un tono amichevole a Bruxelles, con i tedeschi che annunciano: cercheremo di essere così creativi con la Brexit che l’accordo potrà fare da modello nei rapporti con altri paesi, come la Turchia. I nuovi confini a volte posso persino essere un’opportunità.