Il limite politicamente realista che trasforma le mattane di Trump in potenziali successi
Non capisco il presidente americano, ma l’esito paradossale delle sue sparate sembra oggi portare alla delineazione di risultati enormi, da stable genius
Dire che capisco Trump, il cartoon arancione che fa il presidente degli Stati Uniti, sarebbe un’esagerazione tipicamente trumpesca, come definirmi uno “stable genius”, roba da ridere. Ma il mestiere di giornalista, notoriamente, è quello di spiegare agli altri ciò che non si è capito. Non sto a dirvi che ne ho azzeccate parecchie un anno fa e negli ultimi mesi, primo la previsione di una sua probabile elezione anche con l’aiutino di James Comey capo dell’Fbi e di Vladimir Putin, squadernata qui il lunedì precedente il martedì elettorale del novembre 2016; anche sul famoso Steve Bannon, ora disoccupato dopo aver detto alcune scomode verità on the record a Michael Wolff, fui l’unico o quasi a scrivere che era sopravvalutato, perché un tizio che si dice leninista e ha per maestro Julius Evola, teorico della destra tradizionalista antimoderna, o uno che gioca con la alt-right suprematista bianca e contemporaneamente tiene seminari pseudo-post-ratzingeriani in Vaticano con il cardinale Leo Burke, insomma uno così non può che essere un bell’impostore. Ma l’istinto nel mestiere non ha niente di stabile né di geniale, viene dalla praticaccia. E alla praticaccia bisogna tornare.
Dunque. In tutto questo casino, a parte le tasse drasticamente ridotte che sono cosa buona e giusta e stanno mettendo quattrini notevoli nelle tasche degli income depressi dei lavoratori americani, ma si tratta di vecchio armamentario repubblicano e reaganiano più che di trumpismo, l’esito paradossale delle sparate insensate del Potus sembra oggi portare almeno alla virtuale delineazione di risultati enormi, da stable genius, in America e nel mondo. Lo riconosco a denti stretti, con mille cautele, ma sarei un imbecille se non lo facessi, un anno dopo la vittoria del reality candidate che non legge libri, detesta qualunque cosa odori di intelligenza, guarda compulsivamente la tv, tuitta come un pazzo e divora cheeseburger da mane a sera, mentre la family fa soldi in giro autorizzata dall’assenza di seri impedimenti costituzionali al conflitto di interessi potenziale e a un presidente che fa business (anche questo, per vent’anni, lo abbiamo detto agli antiberlusconiani molto perbene che evocavano l’etica americana in modo ipocrita contro il Cav.). E non parliamo della Mosca connection.
Immigrazione. Trump fu eletto su una piattaforma disgustosa e xenofobica, giustizialista e law and order, con le vittime degli immigrati clandestini elevate a martiri mediatici sui palchi dei suoi comizi, una specie di Joe Arpaio all’ennesima potenza, uno che trasformava la scorrettezza benedetta in maledetta pulsione razzista. Ora fa riunioni bipartisan e stupisce tutti parlando di una legge dell’amore, il Bill of love (il Partito dell’amore, ricordate?). I bannonisti residui gridano allo scandalo: Trump tradisce la voglia dei suoi elettori di buttare fuori gli illegali provvisoriamente stabilizzati da un ordine esecutivo di Obama, i cosiddetti dreamers. Così sbraitano i trumpeschi della prima ora, che lo soprannominano Donald J. Trump, ma con la J. a significare Jeb, Jeb Bush, famoso fratello dell’ex presidente, da lui distrutto, uno che era noto per il suo conservatorismo compassionevole verso gli immigrati come governatore della Florida. Ma c’è di più, sempre detto con riserva visto che l’arancione è sempre pronto a smentirsi. Trump minaccia di varare una riforma dell’immigrazione complessiva, obiettivo fallito sia da George W. Bush sia da Barack Hussein Obama, una roba che sarebbe epocale. Magari non se ne farà niente, nonostante il tifo di Wall Street e del Wall Street Journal per un compromesso nazionale, visto che i globalizzanti del quattrino non sono mai stati nazionalisti e antimmigrati; magari i democratici, pensando alle elezioni del prossimo novembre, faranno in modo di far fallire la manovra della Casa Bianca e personale di Trump, cui non vogliono offrire una tremenda vittoria sul campo, ma le cose incredibilmente si dispongono a questo modo.
Trump gigioneggia davanti alle telecamere, nella seduta bipartisan, e si dichiara disposto ad affrontare “the heat”, cioè il rancore e la protesta della sua base, dice che il casino è sempre stato il suo mestieraccio e non ha paura, tanto più che la sicurezza alle frontiere è certo per lui una priorità ma, diciamo la verità, il muro col Messico non sarà mica di 4.000 miglia, ci sono i fiumi, dice, le montagne, le colline, sbarramenti naturali lungo la frontiera, gli basta un simbolo, fa capire, e poi baci e Bill of love.
Coree. Obama fece nulla, leading from behind, da dietro. Trump si è esposto in una girandola di insulti via Twitter, accompagnata dalla flessione dei muscoli navali del Pentagono. Ora come conseguenza le due Coree dialogano sulle Olimpiadi invernali e altro, e c’è chi dice che la Corea del Sud allenterà pericolosamente la sua relazione speciale col grande alleato, con la Cina che la fa da padrone a Nord e a Sud, ma c’è anche chi dice, e non si può giurare sia nel torto, che finalmente the little rocket man della Nord Corea ha trovato qualcuno capace di intimidirlo e ridurlo, diciamo così, alla ragione. Risultato notevolissimo.
Iran. Le proteste della nuova ondata e la destabilizzazione della teocrazia sciita, anche attraverso il rinsaldamento del rapporto triangolare tra Usa, Israele e Arabia Saudita, sono accompagnate dagli incitamenti trasgressivi di Trump, che mettendo in discussione l’accordo sul nucleare, malgrado il rigetto degli alleati europei e del circuito multilaterale costruito da Obama, sembra aver segnato un punto poderoso. Tutto resta nel dubbio, e il che fare? regna sovrano, ma intanto.
Gerusalemme. Non c’è stato il disastro apocalittico di una nuova esplosione di stabile e minacciosa rabbia, il fatto compiuto della dichiarazione di trasferimento futuro dell’ambasciata ha prodotto, sempre in virtù dell’accoppiata con l’alleanza tra Riad e Gerusalemme, un movimento percettibile in una direzione che non è forse più quella dell’accordo per due popoli, due stati, ma appare come un’uscita, comunque, dalla stasi in cui i vecchi progetti erano infognati. Altro punto per l’attivismo disordinato di una presidenza inaudita, a quanto sembra.
Tutto nasce dall’alleanza, questa sì geniale e stabile, che Trump ha consolidato con l’esercito attraverso John Kelly, il suo generale capo-staff, il capo del Pentagono e quello della sicurezza nazionale, altri due generali. E dal legame con Wall Street e Goldman Sachs, legame di ferro che impone un limite politicamente realista a ogni mattana. Così le mattane diventano premesse di realismo in politica interna e internazionale. E a questo paradosso, e speriamo che duri, si aggiunge la straordinaria popolarità dell’ipotesi di Oprah Winfrey candidata democratica per il 2020. Non accadrà ma il solo fatto che se ne parli determina un vantaggio culturale per Trump immenso: un beauty contest, uno scontro tra celebs, sarebbe, oltre al resto, una sua consacrazione culturale definitiva. Anche loro fanno come ho fatto io.
Cose dai nostri schermi