Più foto di famiglia e meno troll russi su Facebook
Zuckerberg chiede perdono con una riforma morale (che difende i profitti)
New York. Nei suoi soliti propositi per l’anno nuovo, Mark Zuckerberg non aveva perso tempo con sfide personali o frivolezze, come quella volta in cui aveva promesso di mangiare per tutto l’anno soltanto carne di animali da lui personalmente uccisi. Si era invece dedicato, con compunzione, alla correzione degli errori e delle manchevolezze che nel 2017 hanno associato Facebook più ai troll russi pro Trump che alle foto di famiglia al mare, mettendo il social network sul banco degli imputati nel grande riflusso tecnofobico odierno noto come techlash. Diceva, Zuckerberg, di volersi occupare di “proteggere la nostra comunità dagli abusi e dall’odio, di difenderci dalle interferenze degli stati stranieri e assicurarci che il tempo su Facebook sia ben speso”. Detto, fatto. Giovedì Facebook ha annunciato una grande riforma dei modi in cui propone e ordina gerarchicamente i contenuti, valorizzando gli elementi di interazione sociale a discapito dei contenuti pubblicitari e delle news. Nel giro di alcune settimane il social network inizierà a dare più risalto e risonanza alle foto degli amici che alle sparate di Trump su qualche shithole in giro per il mondo, una ricalibratura di codici e algoritmi per andare verso la vocazione originaria del social e fermare le derive dell’aggregazione ideologica e commerciale che tanti lutti hanno causato a Zuckerberg quest’anno. Il gran gestore di due miliardi di account vuole alimentare le “interazioni significative” e diminuire il “contenuto passivo” che piove sulla testa degli utenti secondo la logica della bulimia algoritmica, che poi è il dito dietro cui si nasconde il concetto assai più terragno della massimizzazione del profitto.
Si tratta tecnicamente di un passo indietro, di un rallentamento, un passaggio dalla voracità suprema dei dati alla selezione qualificata dei contenuti, movimento innaturale per una macchina tecnoprogressista che per definizione va soltanto in avanti ed è in costante accelerazione. Il mercato, infatti, non ha accolto bene la notizia: il titolo di Facebook ha perso quasi il 5 per cento questa mattina, gli investitori storcono il naso, gli inserzionisti sono imbufaliti per le perdite che vedono all’orizzonte, i media ancora non si pronunciano, ma è ormai da tempo che i distributori di contenuti informativi dominano sui loro produttori, quindi l’opinione delle redazioni conta ben poco. Quello che conta, invece, è rifarsi una verginità, ritornare dalla parte giusta della storia, restaurare quel vecchio mondo in cui i social era un moltiplicatore di bontà, non un amplificatore di odio e fake news. Questo obiettivo val bene un rallentamento, una flessione, e Zuckerberg lo sa: essere buoni, o almeno percepiti come tali, è la pietra angolare su cui è costruito il modello di business dell’intera Silicon Valley, non solo di Facebook. Quando il social è finito nella tempesta per non aver stanato gli infiltrati che per conto del Cremlino compravano ads a favore di Trump, faccenda aggravata dall’estrema riluttanza a produrre deposizioni giurate davanti al Congresso (la famosa trasparenza), Zuckerberg ha tentato una serie di manovre per correggere in corsa la reputazione aziendale. Ha mandato vanti Sheryl Sanderg, poi si è esposto in prima persona, ma la valutazione dell’operato è stata negativa, e dev’essere stato strano perdere la battaglia delle pubbliche relazioni in modo tanto severo. Serviva uno sforzo in più perché il riposizionamento fosse credibile, anzi serviva quello che Franklin Foer ha definito “una richiesta di grazia”. Da lì è nata l’idea della riforma: “Questa ondata di commenti del pubblico ci ha fatto davvero riflettere: cosa siamo qui a fare? Se siamo qui per aiutare le persone a costruire relazioni, allora dobbiamo correggerci”. E allora via con una decisione articolata con vocabolario morale (Facebook deve essere ‘good for people”) e presentata come la scintillante vittoria degli amici sulla pubblicità, della personalizzazione contro l’anonimato, della verità contro la menzogna, un ritorno della vocazione originaria di Facebook che, a quanto dice Zuckerberg, non contemplava i profitti ma soltanto i benefici relazionali per l’umanità. Un’opera filantropica che produceva utili solo incidentalmente. Il crollo del titolo e le pessime reazioni degli investitori suonano come prova del disinteresse di Facebook, che si fregia di agire in nome del bene, ma Zuck sa meglio di chiunque altro che la reputazione è l’asset fondamentale della sua azienda, un valore imparagonabile ai danni economici che Facebook subirà nel breve periodo.