Follie catalane
A più di tre mesi dal referendum fallito sull’indipendenza, c’è chi vuole governare via Skype e chi dal carcere, ma la crisi non è ancora risolta
Quando si è saputo che le forze indipendentiste in Catalogna avevano trovato un accordo per investire alla carica di governatore Carles Puigdemont, l’ex leader deposto e in esilio a Bruxelles, le reazioni sono state ilari e preoccupate. Puigdemont non può rimetter piede in territorio spagnolo, ché nel momento esatto in cui varcasse il confine la polizia spagnola sarebbe pronta ad ammanettarlo, e dunque ha deciso che la sua investitura alla massima carica di quella che lui vorrebbe la Repubblica indipendente di Catalogna, se mai ci sarà, dovrà essere fatta via Skype. Via Skype, davvero, come la videoconferenza in un’azienda, o come una riunione di redazione del Foglio tra Roma e Milano. Immaginate se la connessione si interrompe nel bel mezzo del giuramento, come ogni tanto succede a noi. Tecnici affannati che spengono e riaccendono i computer, parlamentari imbarazzati, colpi di tosse di circostanza, Puidgemont finalmente riappare sul megaschermo ma inizia a sbraitare: io vi sento, voi mi sentite?, e a Barcellona lo sentono, ma audio e video non sono più in sincrono, e allora spegni e riaccendi di nuovo.
Su internet, la notizia dell’investitura via Skype ha generato isteria (Puigdemont propone anche un’altra opzione, l’“investitura per delega”, in cui un parlamentare da lui scelto legge il suo discorso mentre lui si trova a Bruxelles). Alcuni utenti hanno postato foto e immagini animate in cui Puigdemont compare nel Parlament catalano come un ologramma di “Star Wars”, mentre i giornali spagnoli per tutta la settimana hanno pubblicato articoli tra il serio e il faceto sulla “investidura telemática”, che subito è diventata “teleinvestidura”. Il Financial Times ha titolato: “Il leader catalano occhieggia a Skype per inviare il suo messaggio sulla secessione”, ma nel testo ha dovuto confermare che “questa non è una scena di un racconto distopico di fantascienza”.
Puigdemont dice che vuole giurare da governatore in collegamento telematico. Immaginate se si interrompe la connessione
Prima di continuare con quella che ormai è la tragicommedia della politica catalana (non solo dal lato indipendentista), riavvolgiamo il nastro e raccontiamo le cose dall’inizio.
Dopo il referendum illegale per l’indipendenza della Catalogna del primo ottobre scorso, Mariano Rajoy, il primo ministro spagnolo, il 27 ottobre invoca l’articolo 155 della Costituzione e smantella governo e istituzioni di Barcellona. Indice elezioni per il 21 dicembre e, nei giorni successivi, il giudiziario fa mettere in prigione buona parte del governo catalano, colpevole di tradimento per aver dichiarato l’indipendenza. Oriol Junqueras, ex vicepresidente, finisce in prigione con otto ex ministri (quasi tutti sono scarcerati nelle settimane seguenti, tranne Junqueras), mentre Puigdemont e altri ex ministri fuggono di nascosto a Bruxelles. Arriva il 21 dicembre e alle elezioni rivincono le forze indipendentiste, per un soffio. Gli unionisti di Ciudadanos sono il primo partito, ma i tre partiti indipendentisti (JxCat di Puigdemont, Erc di Junqueras e la Cup, partito maoista-indipendentista) hanno la maggioranza assoluta dei voti. C’è un problema però: Puigdemont è a Bruxelles, Junqueras è in prigione e un buon numero di parlamentari indipendentisti neoeletti è in esilio con l’ex governatore. I partiti indipendentisti, più litigiosi che mai, iniziano i negoziati per formare un nuovo governo cercando di fare lo slalom tra imprigionati ed esiliati, e con la minaccia costante di Rajoy che da Madrid dice: se soltanto accennate a rifare l’indipendenza, vi rimetto il 155 schioccando le dita. Come si può immaginare, il processo negoziale non è del tutto sereno.
All’inizio di questa settimana è sembrato che infine i negoziati si fossero sbloccati. I giornali hanno scritto che JxCat (centrodestra) ed Erc (centrosinistra) avevano trovato un accordo per fare un nuovo governo grazie al sostegno della Cup (ultrasinistra maoista) e con Puidgemont di nuovo presidente. Marta Rovira, braccio destro di Junqueras, è volata a Bruxelles e ha contrattato con Puigdemont una nuova alleanza. Dopo l’annuncio succedono due cose: si scatena l’ilarità generale per la “teleinvestitura” di cui sopra e tutti i protagonisti dell’alleanza iniziano a vacillare, a ritirarsi o a criticare l’accordo. La Cup, il giorno stesso, dice che voterà solo un governo che percorra la via “unilaterale” verso l’indipendenza (che a questo punto non si capisce cosa significhi: guerra tra Barcellona e Madrid?). Junqueras, leader di Erc, fa sapere dalla prigione che lui non è affatto d’accordo con la “teleinvestidura” e che un parlamentare deve essere presente di persona per votare ed essere investito di una carica durante le sedute. Proprio per questo invia al giudice una richiesta di trasferimento dal carcere di Madrid a quello di Barcellona, per essere più vicino agli eventi ma soprattutto per essere presente di persona sia alla seduta di costituzione del Parlament (che sarà il 17 gennaio) sia alla prima seduta di investitura del nuovo governatore (che sarà massimo dieci giorni dopo). Parlando con la stampa, i legali di Junqueras non escludono che alla fine possa essere proprio lui il nuovo leader, e questo fa arrabbiare un po’ tutti. Ieri il tribunale ha rifiutato la richiesta, ma non ha escluso la possibilità che Junqueras possa votare a distanza.
Barcellona è sull'orlo dell'ingovernabilità, gli indipendentisti sono inetti ma nemmeno gli unionisti hanno idee
Perfino Marta Rovira, la vice, ieri faceva sapere che non è più tanto sicura dell’accordo con Puidgemont, specie se porterà a nuovi scontri con il governo centrale: Rovira non è in prigione ma è sotto indagine, e teme che altri disordini politici possano peggiorare la sua condizione.
Anche il governo di Madrid è intervenuto sul gran clamore della “teleinvestidura”. Prima il ministro dell’Interno Juan Ignacio Zoido e poi il portavoce del governo Íñigo Méndez de Vigo hanno detto che un’investitura telematica sarebbe contro le regole che lo stesso Parlament catalano si è dato, e che se i catalani vogliono farsi un presidente via Skype Madrid considererà l’azione illegale. Non si sa quali sarebbero le conseguenze, ma è facile immaginarlo: destituzione per tutti e un altro giro di giostra. (In realtà, in punto di diritto nessun passaggio delle leggi catalane o spagnole vieta esplicitamente un’investitura a distanza, e i giuristi ancora non hanno certezze, anche se tendono a vedere l’ipotesi come non percorribile).
In mezzo a tutto questo disastro, da qualche giorno si assiste alla telenovela di Clara Ponsatí, Lluís Puig, Toni Comín e Meritxell Serret, i quattro ex ministri che hanno accompagnato Puigdemont nel suo esilio brussellese. Si sono candidati alle elezioni di dicembre e sono stati rieletti come parlamentari, ma hanno il grosso problema che anche loro, come il loro leader, non possono presentarsi a Barcellona per votare la nuova maggioranza indipendentista, che si gioca sul filo di pochi voti. Secondo il País, i quattro stanno trattando le loro dimissioni per permettere ad altri esponenti di JxCat di subentrare e votare, ma il negoziato si è schiantato su un altro problema: disoccupati a Bruxelles e senza più lo stipendio da parlamentare, i quattro esiliati vogliono che dopo le dimissioni i loro colleghi rimasti in carica sostengano le loro spese durante la permanenza in Belgio – d’altronde Bruxelles è una città costosa, dove un caffè si può pagare anche due euro e mezzo, come notava un servizio velenoso della tv spagnola Antena 3. I colleghi sono recalcitranti, e così per ora i quattro non si dimettono e la maggioranza è in bilico.
Ci sono problemi pure in Belgio. Con un certo grado di esagerazione, i giornali spagnoli hanno parlato di una “crisi di governo” a Bruxelles causata dalla permanenza di Puigdemont e dei suoi. E’ successo che Theo Franken, il viceministro dell’Interno con delega al diritto d’asilo e all’immigrazione, l’anno scorso ha fatto rimpatriare alcuni richiedenti asilo sudanesi con dichiarazioni da sceriffo del tipo: abbiamo fatto pulizia. Peccato che alcuni di questi rifugiati – tre di loro con certezza – una volta tornati in Sudan siano stati torturati dal regime sanguinario di Omar al Bashir. In Belgio, in molti hanno chiesto le dimissioni di Franken, che però farebbero cadere il governo di Charles Michel. Franken, esponente del partito nazionalista fiammingo N-VA, è stato anche il grande fautore della fuga brussellese di Puigdemont, e i giornali spagnoli sono stati velocissimi a cogliere la contraddizione: Franken e il governo belga accolgono come principi i rifugiati catalani, ma mandano alla tortura i rifugiati sudanesi.
Dalla prigione, Oriol Junqueras dice che vuole partecipare al voto del Parlament. Il tribunale gliel'ha negato, forse si farà per procura
Insomma, il 17 gennaio, giorno dell’apertura del Parlament di Barcellona, lo spettacolo potrebbe essere questo: un aspirante governatore in collegamento Skype, alcuni scranni vuoti perché certi deputati sono in prigione oppure all’estero, la folla indipendentista invariabilmente mobilitata fuori dai cancelli, il governo di Madrid che manda messaggi minacciosi, sommovimenti nella politica del Belgio, e nessun accordo credibile, almeno per ora, per formare un governo. In mezzo a questo disastro, l’opposizione unionista (composta da Ciudadanos, dal Partito socialista catalano e da uno sparuto gruppetto di deputati del Partito popolare, la formazione di Rajoy) è stata non meno litigiosa e divisa, ma la leader ciudadana Inés Arrimadas, che pure è stata la politica più votata alle ultime elezioni, ormai non ha praticamente più speranze di diventare governatrice, e i media hanno iniziato a distogliere il loro sguardo da lei.
A oltre tre mesi dal referendum per l’indipendenza, la Catalogna è sull’orlo della totale ingovernabilità, ha un’economia che rallenta, gli investitori internazionali e le aziende locali fuggono, e gli spagnoli iniziano a vedere la confusione come il new normal di Barcellona. Secondo sondaggi dell’istituto Cis pubblicati questa settimana, se tra ottobre e novembre la questione catalana era per la maggioranza degli spagnoli un problema più grave delle difficoltà economiche, oggi la secessione è crollata nella classifica delle preoccupazioni iberiche.
Questo stato di confusione (forse) permanente ci dice due cose piuttosto gravi. La prima, ormai risaputa, è che la classe dirigente indipendentista catalana non è all’altezza degli obiettivi che si è posta. Non lo è mai stata, anche in quei giorni di ottobre in cui sembrava che Puigdemont avesse messo nel sacco Rajoy con un piano studiato nei minimi dettagli: il piano non c’era, e si è visto. La seconda questione riguarda il dato, non eludibile, che alla tragicommedia catalana di questi giorni siamo arrivati – al netto dell’incapacità catalana di cui sopra – perché il sistema giudiziario spagnolo ha messo in prigione o costretto all’esilio numerosi rappresentanti catalani legittimamente eletti. Si può argomentare che questa non è altro che una risposta commisurata alle azioni pericolose e traditrici dei politici indipendentisti, che hanno cercato di secedere dalla Spagna e condannare la Catalogna a probabili disastri politico-economici senza nemmeno godere del sostegno della maggioranza della popolazione (aveva votato per loro il 47 per cento dei catalani). Le azioni giudiziarie sono forse una risposta, ma certo non una soluzione. Il problema rimane tutto di Rajoy, perché se è altamente probabile che il 17 gennaio, giorno della prima riunione del nuovo Parlament, rideremo davanti al traballante collegamento Skype di Puigdemont, rimarrà vero che anche il campo unionista si trova nella stessa condizione degli indipendentisti quando si tratta di immaginare vie d’uscita da questa situazione: non ne hanno trovate.