L'Europa spavalda picchia sul protezionismo e su Trump. Occhio alle crepe
Merkel, Macron e Gentiloni duri contro populismi ed egoismi nazionali. Ma nelle riforme dell'Ue c'è qualche lentezza
Bruxelles. L’Europa è tornata, sopravvissuta alla crisi del debito, ai migranti, alla Brexit, ai populisti interni e esterni, determinata a diventare più forte e a trasformarsi nel nuovo leader del libero commercio, e tutti guardano all’Europa, come dimostra l’affollamento di mercoledì a Davos per i discorsi di Angela Merkel, Emmanuel Macron e Paolo Gentiloni. Nel duello a distanza con Donald Trump, la cancelliera tedesca ha piazzato un paio di colpi diretti al presidente americano lodando l’Onu, la Wto, il multilateralismo e la cooperazione nel momento in cui “vediamo nazionalismo, populismo e polarizzazione” ovunque. “Oggi dobbiamo chiederci se abbiamo davvero imparato la lezione della storia”, ha detto la cancelliera evocando i “sonnambuli” che oltre 100 anni fa “camminavano verso la catastrofe” della Grande guerra. Per Merkel, “chiudersi al resto del mondo non porterà a un buon futuro. Il protezionismo non è la risposta giusta”. Macron ha lavorato Trump ai fianchi spiegando che “uscire dalla globalizzazione non è possibile”, prima di un gancio da “ko” con la proposta di un “compact del multilateralismo”. Anche Gentiloni si è permesso qualche colpo a distanza: bisogna stare attenti con le posizioni protezionistiche perché “apparentemente sembrano tutelare i singoli paesi, ma alla lunga creerebbero enormi problemi a tutti”. Ma dietro al facile esercizio di pugilato contro Trump si nasconde un’insicurezza di fondo: e se i “sonnambuli” di Merkel fossero gli europei? Germania ancora senza governo, Italia a rischio maggioranza populista, prime divergenze franco-tedesche sulla zona euro: la realtà è meno spavalda dell’immagine proiettata dall’Ue a Davos.
Lo scorso anno il World Economic Forum era stata il palcoscenico di Xi Jinping e della Cina alla testa della globalizzazione abbandonata dagli Stati Uniti di Trump. Questa volta è l’Europa che vuole contendere il ruolo di leadership mondiale all’America. Una grastroenterite ha impedito a Jean-Claude Juncker di andare per la prima volta a Davos come presidente della Commissione. Ma il think tank interno dell’esecutivo comunitario, l’European Political Strategy Center, ha pubblicato un report dai toni trionfalistici: l’Ue ha superato le altre grandi economie avanzate in termini di crescita, è “la prima destinazione” per gli investimenti stranieri diretti, è una “superpotenza commerciale globale” che vanta accordi che coprono 76 paesi, ha la seconda moneta al mondo con l’euro, è “leader del mondo nella crescita inclusiva e nella qualità della vita”. L’elezione di Macron ha fornito un “impeto” per rafforzare l’Ue e la zona euro, ha spiegato Merkel. Ma, nei discorsi pubblici e nelle trattative riservate, la storia d’amore tra i due mostra i primi segnali di incrinatura.
Martedì all’Ecofin il ministro delle Finanze di Macron, Bruno Le Maire, ha rinnegato la passeggiata di Deauville con cui Merkel aveva convinto Nicolas Sarkozy a procedere alla ristrutturazione del debito della Grecia per evitare l’azzardo morale. “Non tocchiamo i debiti sovrani, sappiamo cosa è successo dopo il 2010”, ha avvertito Le Maire, riferendosi alle posizioni dei nordici sulla riforma dell’architettura della zona euro. Sull’Unione bancaria, che è la parte più facile del negoziato sull’Unione economica e monetaria, la creazione di un Meccanismo europeo di garanzia sui depositi è bloccato dai paesi del nord che vogliono ridurre i rischi delle banche a zero prima di arrivare alla condivisione del rischio con quelli del sud. “E’ una scusa”, ha risposto Pier Carlo Padoan.
Mercoledì a Davos, la stessa Merkel si è lasciata scappare una frase che appare come una linea rossa che rischia di bloccare le ambizioni di Macron sulla zona euro: occorre prepararsi alla prossima crisi facendo in modo che i “rischi non siano comunitarizzati”. Macron è tornato a promuovere quella “avanguardia europea” che la Germania non vuole perché escluderebbe l’est appena riunificato all’Europa. “Non costruiremo mai qualcosa di sufficientemente ambizioso a 27”, ha avvertito il presidente francese. Se si aggiungono le divisioni ovest-est sui migranti, la deriva antiliberale di alcuni governi di Visegrad, i conflitti a venire sul bilancio comunitario, e l’allergia del sud ai tetti del 3 per cento, l’Ue ha ancora molto lavoro da fare su se stessa prima di proclamare che “Europe is back”.
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tra debito e crescita