Passata l'attenzione, la repressione iraniana uccide i manifestanti
Ci sono casi di persone arrestate durante le proteste e poi trovate morte, e almeno sette nomi che circolano
Roma. L’attenzione sulle ultime proteste in Iran si è dissolta dopo due settimane, ma la storia è molto lontana dall’essere finita. Ogni giorno da parti differenti del paese arrivano notizie che fino a un mese fa sarebbero state considerate incredibili e che invece oggi sono diventate di routine – anche se filtrano all’esterno soltanto grazie a canali non controllati dal governo: cori in strada contro il sistema teocratico, manifesti con la faccia degli ayatollah abbattuti, lanci di bottiglie molotov contro le sedi del comune nella capitale Teheran. A Qom, città santa degli sciiti, ci sono stati attacchi contro il clero, visto come grande simbolo della repressione: alcuni predicatori isolati sono stati trascinati fuori dalle loro macchine, malmenati, in un paio di casi accoltellati. Si tratta di fatti inauditi in un paese di 77 milioni di persone che dal 1979 si regge sulla fiducia e il timore ispirati dal sistema di governo in mano a guide religiose e militari rivoluzionari.
Approfittando del calo di attenzione internazionale, l’apparato di repressione di Teheran – che funzionò con efficienza durante i grandi disordini del 2009 – è tornato a colpire. Lunedì un avvocato dei diritti umani, l’iraniana Nasrin Sotoudeh, ha denunciato la scomparsa della donna simbolo che il 27 dicembre, un giorno prima dell’inizio delle manifestazioni, sventolava uno scialle bianco in un viale della capitale come protesta contro l’imposizione del velo. La donna era stata arrestata poco dopo e da allora non ci sono notizie. Sotoudeh dice di non essere nemmeno riuscita a scoprirne il nome, ma soltanto che ha 31 anni e ha una figlia di 19 mesi. Oltre al suo caso, che è celebre perché le immagini di lei finirono in tutti i notiziari del mondo, ce ne sono altri gravi e quasi sconosciuti. Il Sunday Times britannico scrive che un numero non specificato di persone arrestate durante le proteste è morto per torture in prigione e fa sei nomi: Sina Ghanbari, Vahid Heydari, Shahab Abtahizadeh, Saro Gharehmani, Kianoush Zandi e Mohsen Adli. Ufficiali giudiziari iraniani hanno confermato la morte in carcere dei primi due, ma dicono che si trattava di tossicodipendenti che si sono suicidati e che ci sarebbe la prova video (che però non è stata pubblicata per ora). Un ex funzionario del governo “riformista” di Khatami diventato attivista politico denuncia la morte di una donna di 27 anni, ingegnere, Maryam Jafarpour, che sarebbe stata riconsegnata morta alla famiglia tre giorni dopo essere stata arrestata in una protesta. I canali Telegram dei dissidenti pubblicano le foto degli infiltrati della polizia che scattano fotografie alla gente durante i cortei.
Lunedì una commissione parlamentare ha scelto sei membri per andare a visitare la settimana prossima il carcere di Evin, vicino Teheran, dove sono rinchiusi i prigionieri politici. Non c’è conferma da parte del governo e altre visite sono già state cancellate in precedenza. Quaranta parlamentari hanno scritto una lettera per chiedere al capo dell’assemblea, Ali Larjani, la creazione di un comitato indipendente per investigare sulla morte dei detenuti, per ora senza risposta. L’iniziativa fa parte del nuovo clima che si respira in Iran, dove la repressione è affiancata da misure che in teoria dovrebbero stemperare la tensione, considerato che a ribellarsi ora non sono più i relativamente pochi giovani libertari della capitale – per loro il dissenso è un fatto naturale – ma i settori più tradizionalisti della società e in particolare i lavoratori. Il capo della polizia di Teheran a fine dicembre ha annunciato un ammorbidimento delle regole sul velo islamico. Due giorni fa alle nove di sera la tv di stato ha trasmesso un’intervista “in diretta” con il presidente Hassan Rohani. Ma dalle finestre filtrava la luce del giorno.