Il messaggio di Trump a Davos: ho ragione io
Lo strano abbraccio fra America First e prosperità globale
New York. Accolto a Davos da tutto lo scetticismo europeo del caso e dallo striscione di una ong progressista “Trump not welcome!”, che confonde un po’ chi ricorda l’attivismo no global, Donald Trump ha detto che parlerà venerdì innanzitutto di “pace e prosperità”. Prima di partire da Washington alla volta del World Economic Forum aveva scritto su Twitter che nel suo intervento avrebbe spiegato “al mondo quanto è grande l’America e quanto sta facendo. La nostra economia sta avendo un boom grazie a tutto quello che sto facendo, e andrà sempre meglio. Il nostro paese sta finalmente vincendo di nuovo!”, e in questa direzione più celebrativa delle conquiste americane che distruttiva del consesso che lo ospita vanno anche tutti i messaggi che sono trapelati dalla delegazione in Svizzera e dalla Casa Bianca. Rimangono intatte la prospettiva nazionalista e il profondo sospetto per i consessi globali in cui pure si fregia di essere invitato (“It’s great!”, ha risposto a chi gli ha chiesto cosa pensava della riunione di Davos), ma il senso della missione di Trump nella fucina della globalizzazione è affermare che non c’è contraddizione fra l’America First e il globalismo, fra gli interessi particolari delle nazioni difesi con serietà e regole chiare e la prosperità del mondo intero. Per il presidente americano si tratta innanzitutto di chiarire ai maestri delle filosofie sopranazionali e della finanzia globalizzata che le paure di un nazionalismo depressivo che guarda al passato invece che al futuro sono fortemente esagerate. Ha diverse prove da esibire a Davos: i record degli indici, la crescita economica, la disoccupazione ai minimi, la deregolamentazione virtuosa, i consistenti tagli fiscali che hanno già avviato meccanismi di rientro delle attività produttive in quella che rimane la nazione più stabile e prospera del mondo. Questi sono gli argomenti che ha tirato fuori già nell’incontro con i leader europei giovedì sera, e venerdì ripropone nel suo discorso, il più lungo concesso in tutta la sessione assieme a quello di Macron (che ha sforato sui tempi, forse Trump, che vive di visibilità e competizione, non vorrà essere da meno).
Anthony Scaramucci, abitante a vario titolo del mondo di Trump – è stato anche direttore della comunicazione della Casa Bianca per una manciata di giorni – e finanziere di estrazione davosiana, ha detto in un’intervista in Svizzera che il presidente “spiegherà che favorire la classe media americana è un bene per il mondo intero” e ha definito Trump “un globalista”, uno che “ha una personalità doppia ed è venuto qui per “disrupt things”, per portare un po’ di distruzione creativa. Si possono avanzare molti dubbi sulla capacità di Scaramucci di interpretare correttamente il pensiero del presidente, ma è certo che quello che si presenta a Davos è un Trump de-bannonizzato che sulla politica economica si affida molto più al consigliere economico Gary Cohn, ex presidente di Goldman Sachs, che ai suggerimenti protezionisti di Wilbur Ross, il segretario del Commercio. E’ un presidente che ha ricevuto più di un complimento sulla condotta politica da parte degli esemplari più illustri della specie dell’“uomo di Davos”, come la chiamava Samuel Huntington. Jamie Dimon, ceo di Jp Morgan, si è detto “esaltato dal fatto che i policymakers stanno prendendo buone decisioni negli Stati Uniti sulle tasse e sulle riforme regolatorie”. L’amminstratore delegato di Goldman Sachs, Lloyd Blankfein, ha detto dell’operato di Trump: “Ci sono molte più cose che mi piacciono di quelle che non mi piacciono”.
Questi cauti endorsement da parte di chi temeva un’apocalisse protezionista e svolte antimercato permettono alla Casa Bianca di seguire una linea narrativa di conciliazione fra nazionalismo e globalismo, crinale su cui Trump si è già esercitato altrove. All’Onu, ad esempio, il contesto più affine a quello di Davos che il presidente abbia affrontato nel suo primo anno di governo. Nel discorso all’assemblea generale aveva evidenziato, a suo modo, le linee nascoste di convergenza fra due visioni apparentemente inconciliabili: “Ci aspettiamo che tutte le nazioni adempiano due compiti fondamentali della sovranità: rispettare gli interessi del proprio popolo e i diritti delle altre nazioni. Questa è la bellissima visione alla base di questa istituzione, ed è il fondamento della cooperazione e del successo”. A Davos, il primo presidente americano dopo Clinton che partecipa all’incontro ha trovato una schiera di critici pronti a smascherare l’idea di un abbraccio nazional-globalista, ma non si tratta certo di un alieno in questo consesso. Fra alleati politici, investitori amici e soci d’affari del passato remoto o recente, il presidente e la sua attiva delegazione possono contare su una rete di protezione che rende meno lunare la missione presso l’élite globale per consegnare un messaggio: ho ragione io.