LaPresse/AFP

Trump e i globalisti a Davos

Il gran protezionista arriva al World Economic Forum dopo un anno di scelte moderate e molti litigi con gli ultrà dei dazi

New York. Nella Davos in attesa dell’arrivo del portabandiera dell’antiglobalismo, Donald Trump, il segretario del commercio americano, Wilbur Ross, ha offerto ieri un antipasto belligerante: “Le guerre commerciali vengono combattute ogni giorno, la differenza è che adesso le truppe americane stanno accorrendo al forte”, ha detto al World Economic Forum. In campagna elettorale un messaggio del genere sarebbe stato sottoscritto e ritwittato con ferocia comunicativa da Trump, dopo un anno di governo per certi versi più convenzionale del previsto – nella sostanza politica, almeno – si trova in patente contraddizione con quello che ha detto il presidente giusto due giorni fa: “Non ci sarà una guerra commerciale. Ci sarà soltanto un incremento del valore delle azioni per le aziende che sono in questo paese”, ha detto dopo aver firmato un decreto che mette dazi sui pannelli solari e le lavatrici che vengono dalla Cina, un passo concerto nella direzione protezionista fin qui molto declamata e poco praticata. La disputa fra Trump e Ross ha assunto ormai proporzioni grottesche, riferiscono funzionari della Casa Bianca che da mesi assistono alle umiliazioni del segretario, e il presidente lo accusa di “non capire niente dei trattati” e di “aver perso un colpo, anzi di aver perso molti colpi”. Quando, ad esempio, Ross gli ha presentato una “vittoria erculea”, che consisteva nell’aprire il mercato americano ai polli cinesi cotti in cambio dell’apertura di Pechino al manzo americano, Trump ha fatto spallucce e ha comunicato ai suoi consiglieri tutto il disprezzo per i ridicoli vanti di uno che, per giunta, ha la sgradita abitudine di addormentarsi durante gli incontri con le delegazioni del Congresso.

  

Nell’universo di Trump le incompatibilità personali si sovrappongono e tendono a coincidere con le dispute politiche, e dunque dietro le tensioni con Ross si staglia una più ampia divergenza sulla direzione da prendere sulla politica commerciale. Assieme all’economista Peter Navarro, consigliere che guida la falange dei dazi in funzione anticinese, Ross si è trovato a combattere una guerra interna alla Casa Bianca con lo schieramento guidato da Gary Cohn, ex presidente di Goldman Sachs che si trova a proprio agio in quel di Davos, e sostenuto anche dal rappresentante del commercio, Robert Lighthizer, che ha soffiato al segretario tutte le deleghe che contano. Questa dinamica ha fatto sì che nel primo anno dell’Amministrazione Trump la sbandierata rivoluzione protezionista non vedesse davvero la luce. Trump si è ritirato dai trattati di libero scambio sostenuti da Barack Obama, ma non ha dichiarato la Cina un “manipolatore della valuta”, non si è ritirato unilateralmente dal Nafta (i negoziati per una riforma sono in corso, e molti dicono che gli emissari usano il ritiro solo come una minaccia per ottenere condizioni più favorevoli) e ha giocato la partita commerciale soprattutto attraverso la riforma fiscale, che ha portato al 21 per cento l’aliquota massima per le aziende, cosa che ha già riportato investimenti in America di società come Apple. E’ questo che Trump dice di voler mettere a tema domani al summit in Svizzera: “Parleremo di investire di nuovo negli Stati Uniti, per portare la gente a spendere i loro soldi nei buoni vecchi Stati Uniti”. L’imposizione di dazi circoscritti su alcuni prodotti cinesi è stata la manovra protezionista più esplicita, ma c’è chi ha ricordato che anche Ronald Reagan, il protettore universale del libero mercato, aveva imposto durissime imposte su auto e moto giapponesi, per difendere l’industria americana. La manovra, unita ai timori di proclami nazionalisti davanti al consesso che è innanzitutto colpevole, secondo la psicologia di Trump, di non averlo mai invitato prima, il Wall Street Journal ha scritto che dopo un anno di temporeggiamento il presidente “inizia la sua guerra commerciale”, che poi è anche una guerra contro “i consumatori americani”: “Non finirà come lui s’immagina”, scrive il quotidiano liberista, che negli ultimi mesi lo ha sostenuto in lungo e in largo, quasi a segnalare che la benevolenza ha un limite.

Di più su questi argomenti: