Specchio riflesso
La curatrice del Guggenheim che ha offerto a Trump il cesso di Cattelan ha pestato una merda d’artista
Sembra che nello spazio di una notiziola curiosa siamo diventati tutti curatori del Guggenheim, solidali con l’ironia tagliente di Nancy Spector, che s’è rifiutata di prestare alla Casa Bianca il “Paesaggio con la neve” di Van Gogh e in cambio ha offerto il cesso d’oro di Maurizio Cattelan, riproduzione fuori tempo di cose fatte da Marcel Duchamp cent’anni fa e intitolata “America”. Che risposta arguta! Che sferzante metafora! Che nobile atto di disobbedienza civile!, si è scapicollata subito la socialsfera sempre in cerca di un hashtag a cui aggrapparsi, proclamando la Spector un’eroina nazionale prima di potersi rendere conto che la sua controfferta simbolica e le risatine d’accompagnamento di Cattelan all’intervistatore del Washington Post non sono che piccinerie, ripicche adolescenziali. Sono citazioni tratte dal manuale dell’umorismo infantile di Trump. Consideriamo il caso.
L’ufficio preposto all’arredo della Casa Bianca ha presentato una richiesta formale al museo di New York per ottenere un quadro di Van Gogh da mettere nell’ala residenziale della Casa Bianca. Una richiesta normale: Barack e Michelle Obama hanno ottenuto in prestito quarantacinque opere d’arte da vari musei per impreziosire la residenza presidenziale, e per ragioni ovvie nessuno ha rifiutato loro un Jasper Johns offrendo in cambio una scatoletta di merda d’artista. Le ragioni ovvie hanno a che fare non tanto con l’identità del destinatario ma con lo scopo essenziale del prestito, abbellire il luogo simbolico e in un certo senso sacrale dove vive ed esercita la sua leadership il presidente degli Stati Uniti. Non questo o quel presidente: il presidente.
I Trump non hanno chiesto il quadro per la lavanderia della Trump Tower o per la sala trofei di Mar-a-Lago, lo volevano per nobilitare l’ufficio che quelli come Spector, nota critica di Trump, lo hanno accusato di avere vilipeso, dissacrato, usurpato con tutte le oscenità che non stiamo qui a ricapitolare. Non è a Trump che ha offerto un costosissimo water d’oro massiccio in cui hanno depositato pipì di turista qualche centinaio di migliaia di persone in un anno, lo ha offerto al presidente degli Stati Uniti d’America. E’ un anno e mezzo abbondante che la schiatta liberal e perbene a cui la curatrice fa riferimento spacca quotidianamente le sfere di Arnaldo Pomodoro con la superiorità morale verso l’Orrendo arancione che ha occupato il posto dell’Elegantissimo nero, e quando finalmente capita l’occasione di darne prova, la Spector è caduta a corpo morto nel tranello.
E ha fatto esattamente una cosa da Trump: sembra quasi di vederlo mentre spedisce a Graydon Carter le sue foto, con le mani cerchiate ed evidenziate, per mostrare al leggendario direttore di Vanity Fair che non sono piccole come dice. Sarà vero che l’opera richiesta era troppo fragile per sostenere un prestito del genere, e sarà pure vero che il cesso in questione è stato fatto da uno degli artisti più quotati del mondo, ma il gesto che ha conquistato le simpatie di tutto un universo che si dà di gomito alle battute sceme è l’equivalente artistico di uno “specchio riflesso” al compagno antipatico. La minaccia più preoccupante del volgare Trump è che ha trumpizzato qualunque cosa, è un Re Mida rovesciato che imbruttisce tutto ciò con cui viene a contatto, a partire dal senso del decoro dei critici che passano le giornate a dirci quanto sono migliori di lui. Fossero davvero migliori, gli avrebbero offerto un Van Gogh ancora più bello.