Trump, populista pro business
Il presidente dell’America First parla a Davos, e la platea applaude il suo nemico che fa un discorso in cui tutto si tiene: con lo “stable genius” la globalizzazione come motore economico della crescita diventa capra e cavoli
Pro business populism, e la globalizzazione come motore economico della crescita diventa capra e cavoli. Qualsiasi cosa abbia detto Trump alle élite dei mercati aperti che non lo avevano mai invitato e ora lo subiscono a Davos in un clima di euforia economica e finanziaria, comprensibilmente festosi verso il loro apparente nemico, sta di fatto che tutto si tiene, almeno in apparenza, anche gli opposti. America First non vuol dire America Alone, ecco una rassicurazione che fa il giro delle nevi svizzere e del mondo. Il ciclo neoliberale nel mondo globalizzato è partito con la deregolamentazione e il taglio delle tasse, e su questo il primo anno di Trump e della sua squadra Goldman Sachs sembra un nuovo inizio. Business as usual, più ancora che as usual, e ricasco potenzialmente notevole sull’economia internazionale. Le misure protezioniste, dal solare alle lavatrici, poi a quanto pare l’acciaio e l’alluminio, e l’accenno del segretario al Tesoro Usa al lato buono della svalutazione competitiva del dollaro, che irrita Mario Draghi come sintomo di disponibilità a una guerra nel sistema dei cambi e costringe il presidente americano alla solita correzione di teatro, vanno teoricamente in direzione inversa, comportano il rischio della ritorsione, ma potrebbero essere una sgomitante proposta unilaterale di riforma del multilateralismo stile Wto, nel frattempo bloccato a Ginevra dai veti americani sulle nomine. Gli economisti del Wall Street Journal e affini sostengono che quelle misure non saranno efficaci, sulla scala del mercato americano dei prezzi e degli investimenti, per la creazione di posti di lavoro, per la soddisfazione della classe media consumatrice, per il recupero dei dimenticati della globalizzazione. Al contrario, rischiano di danneggiare crescita e occupazione. Unusual business. Ma da molto tempo bisogna prendere con le molle le previsioni di analisti ed economisti.
George Soros dice che Trump farà la guerra nucleare e tutto andrà a puttane, ma anche il campione dell’internazionalismo finanziario, e gran speculatore, sembra strozzato, nel bene e nel male, dal suo ruolo ambiguo oscillante tra redditività del capitale finanziario e progetto politico e ideologico un po’ arruffato. L’idea pimpante del pro business populism è che un paese-sistema, un mercato internazionalizzato e interdipendente come quello americano, possa essere guidato in direzione ostile alla globalizzazione come si è strutturata nei decenni, con la cautela di un protezionismo inteso come leva per la riforma del libero commercio inteso come sistema di regole unfair, ingiusto, da correggere, qualunque cosa ne pensino Cina, India ed Europa. Anche questo è tutto da vedere. Per adesso Trump usa toni trionfalisti e si erge come un nano sulle spalle della colossale, smagliante accelerazione della ripresa e della crescita iniziata del tutto a prescindere da lui stesso, con le note ricadute sulla Borsa valori. La logica distruttiva fa la sua corsa, a un anno dall’elezione del mattoide demagogo, lo stable genius, che mescola l’istinto dell’America First, politica e immagine, con il rilancio reaganiano degli spiriti animali del capitalismo mondiale; quella riformatrice, per evitare l’isolazionismo antimercato e antibusiness dell’America Alone, sembra per adesso solo l’embrione di un progetto o, nel caso peggiore, una risorsa propagandistica. Un sacco di quattrini ritorna nelle tasche del sistema nazionale Usa, e ne beneficiano lavoro e salari in modo apparentemente molto efficace, e questo può avere conseguenze per le elezioni di midterm del prossimo novembre, anche perché l’opposizione democratica va forte nell’assedio, ma risulta debole nella controffensiva: non si vede una coalizione politica e sociale di tipo nuovo, e stabile abbastanza per promettere un’alternativa, né una leadership all’altezza della demagogia del presidente.
Poi c’è la questione politica, come sempre la più importante. Il pro business populism dà voce a un paese che non ha conosciuto la guerra dentro le sue frontiere se non nella forma della guerra civile. Per il resto, comprese due Guerre mondiali combattute in Europa, compreso il dramma dell’11 settembre, con il conflitto asimmetrico e di civilizzazione portato nel medio oriente e nell’Eurasia, compresa naturalmente la Guerra fredda, l’America ha sempre dovuto fare i conti con la logica imperiale o eccezionalistica del suo ruolo di avanguardia indispensabile del mondo libero e dell’occidente, sempre oltremare. Negli otto anni di Obama fu preparato il terreno al riflusso attuale. Anche Obama, che sapeva compensare con il multilateralismo diplomatico e la retorica elegante, alta e un po’ alticcia della differenza, dell’ecosistema da salvare e della pace multinazionale e multiculturale per chi se la poteva permettere, fu campione a suo modo di un’America First che rinunciava alle responsabilità nella scena internazionale, leading from behind. Fu eletto come simbolo messianico della politica identitaria delle differenze e delle minoranze, e come il politico che aveva detto no alla guerra in Iraq e alla strategia neoconservatrice di esportazione della democrazia, e poi mantenne vivo il sistema della globalizzazione finanziaria, con notevoli eccezioni, ma prosciugandone alla radice il senso politico, fino al disastro finale della candidatura della Clinton, che fu remissiva e subalterna (“Stronger together”) rispetto all’offensiva del businessman demagogo (“Make America Great Again, America First”). La Merkel e Macron, che hanno la sensibilità storica di paesi e culture impegnate strategicamente da decenni nella costruzione sovranazionale e multilaterale, una globalizzazione necessariamente elitaria sfidata dai populismi e nazionalismi europei antibusiness e antieuro, si sono opposti come potevano al momentum trionfale di Trump, il salesman e il manipolatore della classe “dimenticata” del suo paese: gli hanno ricordato, da una tribuna fragile che è quella di un’Unione divisa e incapace di uscire dall’angolo, in cui anche a loro tocca una parte di protezionismo dell’economia su scala nazionale con i surplus commerciali e il ruolo dello stato difesi a denti stretti, che oltre l’orizzonte della finanza e del commercio, del pro business populism and nationalism, sono in gioco i fatti della storia, materia nella quale il real estate broker venuto dal Queens non è particolarmente ferrato.